Caro direttore,

Anche questo anno la scuola in Palestina è iniziata. Il 6 settembre migliaia di nostri ragazzi sono ritornati ai banchi di scuola, hanno rincontrato i loro compagni, le insegnanti, hanno ripreso la loro “normale” vita di studenti dall’asilo alle superiori.

Il sistema educativo palestinese si rifà totalmente a quello giordano in termini di struttura, linee guida e programmi che prevede tre cicli scolastici. Un primo ciclo elementare va dalla I alla VI classe; un secondo ciclo intermedio va dalla VII alla X classe, un terzo ciclo superiore dalla XI alla XII. I primi due cicli costituiscono il percorso educativo di base e obbligatorio. Il biennio finale costituisce un percorso educativo superiore e facoltativo, e può essere di due tipi diversi: accademico per la preparazione agli studi universitari oppure tecnico di formazione professionale.



Le 5 scuole francescane e le altre 8 scuole e istituti (alcuni specializzati per disabili) che – come Avsi, Associazione volontari servizio internazionale – sosteniamo a Gerusalemme Est, Betlemme e Gerico con il progetto promosso dal Ministero degli Affari esteri italiano sono strutture accoglienti, pulite, ben mantenute, luoghi dove si studia molto e dove l’offerta educativa è buona. Sono quindi luoghi dove è bello entrare e dove i ragazzi spesso trovano gli unici spazi dove poter giocare tranquilli. Ma non è questa la regola, in Palestina. Solo uno che è stato per qualche tempo nella città vecchia di Gerusalemme dove le case sono ammassate l’una all’altra e le famiglie sono costrette ad una convivenza forzata, sa cosa vuol dire questo respiro… Non c’è spazio per giocare e neanche per studiare. Molti degli appartamenti sono ricavati da locali sotto terra di epoca crociata. Famiglie di 6/7 persone dormono nelle stesse stanze e per andare in cucina o in bagno devono uscire all’aperto, perché ricavati in altri locali posti dall’altra parte del cortile.



Diversa è la situazione a Betlemme e Gerico dove le persone vivono in abitazioni più dignitose ma spesso povere, dove però ci sono i check-point e il muro di divisione israeliano, che non permettono di muoversi liberamente da una città o un paese all’altro. Betlemme e Gerusalemme che distano tra loro 7 km possono essere visitate  dietro permesso delle autorità israeliane solo durante i periodi delle feste religiose come il Natale e la Pasqua. Negli altri mesi solo chi ha il permesso di lavoro che deve essere rinnovato ogni 3 mesi può passare il check-point facendo ogni giorno ore di fila (tipo i controlli che devi passare quando prendi un aereo, con metal detector e perquisizione).



Parlando con gli insegnanti si intuisce uno sconforto che inevitabilmente la gente di qui vive per la situazione di continua tensione con Israele, che influisce sulla vita comune di tutti i giorni; mancanza di lavoro e salari non adeguati, violenza per le strade soprattutto nelle zone di confine e nei campi profughi, che ormai sono diventati parte integrante di queste città.

Tale sentimento si vede anche tra i ragazzi, solo salvati – almeno i più piccoli – da quella voglia di vita che tutti i bambini hanno, ma che si trasforma con l’età in violenza o disinteresse e apatia.

Nelle classi gli insegnanti hanno il loro bel da fare. Sempre più spesso le lezioni sono difficili da gestire e quasi ogni scuola ha degli assistenti sociali che devono aiutare i ragazzi che vengono segnalati come “problematici”. Ma quello che sembra solo un problema di comportamento in classe, rivela puntualmente delle storie molto sofferte in cui i genitori sono separati, o disoccupati, o dediti all’alcol, violenti, oppure che hanno diversi lavori per guadagnare il necessario per la famiglia e che quindi non hanno tempo di seguire i figli nello studio; e quindi la scuola è spesso vista dai genitori come chi si prende cura dei loro figli, delegando di fatto la loro educazione.

Le situazioni sono così variegate e problematiche che spesso gli operatori sociali non sono in grado di farvi fronte e anche diverse istituzioni educative faticano a trovare strumenti adeguati nella formazione del personale specialistico, in quanto la Palestina è priva di punti di eccellenza in questo settore.

Se i bambini sono disabili, quanto detto assume un carattere ancora più grave, in quanto nella mentalità comune il disabile è visto come uno stigma, una vergogna da nascondere il più possibile; chi ha un figlio disabile mentale è difficile che riesca a sposare le figlie. Spetta quindi un grande lavoro alle scuole e agli insegnanti, senza contare che ciò che ho detto per le famiglie in generale vale anche per i genitori.

Grande influenza hanno anche la Tv, internet i social network, che in qualche modo sono un mezzo di comunicazione che supera i confini della propria casa, città, paese. I ragazzi vestono alla moda, hanno interessi comuni, si affidano al gruppo di amici; ma si vede anche che la famiglia qui ha ancora un’autorevolezza che da noi è quasi scomparsa. Il clan famigliare a cui appartieni gode ancora di una forte influenza sulle decisioni che vengono prese all’interno della famiglia; c’è rispetto per le persone più anziane.

Anche la religione è molto sentita; è un segno di appartenenza che nei rapporti viene sempre sottolineato. Quando incontri qualcuno e gli chiedi come si chiama, subito capisce se sei cristiano o musulmano e la zona da dove vieni. Uno appartiene ad un credo per tradizione e questo viene difeso, mostrato, esibito ogni volta che si può, anche se poi la vita di tutti i giorni si piega alla mentalità e a valori comuni anche contrari. È bello vedere quando nel quartiere cristiano qualcuno passa di fronte alle porte delle case o alle chiese dove sono poste le immagini della croce di Terra Sancta e si fa un veloce segno di croce… bambini, giovani e vecchi. 

Per quanto riguarda i giovani e i problemi che nelle scuole si evidenziano credo che questi stessi comportamenti siano comunque il segno di un’umanità ancora viva, che scalpita e si ribella quando non riesce a trovare risposte adeguate alla loro sete di vita. Spesso infatti il disinteresse nelle classi ha origine nel fatto di non percepire come utile ciò che si sta imparando, oltre che da un metodo di insegnamento particolarmente rigido, a motivo sia della tradizione di appartenenza sia della struttura della scuola in Palestina.

Infatti le scuole non possono scegliere i libri di testo, che sono dati dallo Stato; e lo studio è soprattutto nozionistico, anche la matematica. Non si insegna un metodo di studio, non si è accompagnati a ragionare sulle cose; gli stessi insegnanti non sono stati educati in questo modo. Tutto è pensato per il superamento dei test annuali e soprattutto del Tawjii, il diploma della scuola secondaria: l’ultimo anno è speso a imparare a memoria quanto più possibile, in modo da superare l’esame con il punteggio più alto perché l’ingresso all’università è regolato dal voto di uscita fondamentale anche per accedere alle borse di studio o andare a studiare all’estero.

Molte delle famiglie non riescono a sostenere il costo dell’iscrizione a scuola e sono costrette a indebitarsi o a chiedere alle scuole di coprire il rimanente. Le scuole e le istituzioni religiose funzionano di fatto come ammortizzatori sociali, e garantiscono quei servizi ai più poveri che in Europa sono dati dal governo.

Questa situazione di povertà coinvolge la maggior parte delle famiglie palestinesi e non accenna a migliorare, tanto che chi può, soprattutto tra i cristiani, lascia il paese per rifarsi una nuova vita all’estero, soprattutto in Europa e America. Oppure tanti genitori, approfittando di familiari che hanno scelto di vivere all’estero, decidono di mandare i figli alle università straniere, con la speranza che possano trovare là un buon lavoro o ritornare in Palestina o Israele con dei titoli di studio internazionali ed essere così assunti in buone posizioni.

E il futuro? Qui in Palestina si è vissuta poco la “primavera araba”. Controllati da due governi, israeliano e palestinese, ci sono state pochissime manifestazioni. Ma c’è sicuramente un’aria nuova.  In fondo è come rinata una certa coscienza che fa capire che si può essere attori del proprio futuro; soprattutto in questa fase, con la questione aperta del riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Onu, c’è molto fermento. La situazione è estremamente delicata. Siamo come in bilico su una corda, se non manteniamo l’equilibrio rischiamo di cadere e farci male. Molti hanno paura di una nuova guerra. Una terza Intifada?

 

Alberto Repossi, rappresentante Avsi in Palestina

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