L’intervento di Mario Draghi all’Intergruppo per la Sussidiarietà, ha rilanciato sulle prime pagine dei giornali un vivace e sacrosanto dibattito sull’Italia “paese per vecchi” e sullo stretto legame che esiste fra i giovani e la crescita, non la loro, di cui peraltro sarebbe bello preoccuparci di più, ma quella del paese. Dico “rilanciato” perché i temi toccati dal Governatore, le cui osservazioni sono corrette e rilevanti, sono in realtà presenti da tempo, in alcuni casi da molto tempo, nel dibattito sociologico, per cui si poteva pensarci prima…
La prima affermazione è che le prospettive dei giovani sono incerte, e questa generazione di giovani non godrà, e non potrà godere, di condizioni di vita migliori di quelle dei loro padri. Nel rapporto curato da Confindustria sulla “mobilità della società italiana”, uscito nel 1996, io stessa parlavo di “caduta della speranza” e “decumulazione del capitale umano” per indicare la situazione di una società che, incapace di investire sui giovani e di fornire loro motivazioni forti, preferiva deresponsabilizzarli e ricorrere ad un assistenzialismo prolungato, creando tanti giovani Peter Pan che rifiutavano di crescere, anziché pensare a modalità nuove di valorizzarne i talenti. Se l’isola c’è, in altre parole se si pensa a provvedimenti mirati, e non generici, di sostegno ai giovani, e in particolare all’imprenditorialità giovanile, è plausibile, oltre che logico, che le prospettive dei giovani miglioreranno, e con loro quelle del paese.
In secondo luogo, parrebbe evidente che questa situazione viene esasperata dalla crisi economica, che causa l’aumento di famiglie a più generazioni in cui i genitori, o addirittura i nonni con le loro pensioni, consentono la sopravvivenza dei figli. Questo è vero solo in parte. La dizione di “famiglia lunga del giovane adulto” compare, ed è già consolidata, nel titolo di un volume del 1988, e dal punto di vista economico, caduti i vincoli di sopravvivenza, sembra dovuta soprattutto al desiderio della famiglia di garantire ai giovani la possibilità di scegliere un lavoro definitivo più consono alle loro aspettative e competenze. Oggi, piuttosto, diminuisce il confine fra lavoro iniziale e lavoro definitivo, e le generazioni di mezzo, compresse fra cura degli anziani e figli ancora a carico, cercano in ogni modo di incoraggiarne l’uscita.
Nelle situazioni di crisi, nota Draghi, la famiglia è un ammortizzatore, garantisce una possibilità di sopravvivenza: ma questa sua funzione non è nuova, e perfino i miei studenti sanno che una delle funzioni centrali dell’istituto famigliare è da sempre quella di una ridistribuzione del reddito, finalizzata a supportare i membri più deboli. E’ chiaro che una politica famigliare in grado di evitare l’impoverimento dei nuclei famigliari con più figli inattivi faciliterebbe questo processo, e si trasformerebbe da assistenziale in proattiva, mentre spesso ci si limita a constatare il fenomeno.
Da ultimo, e su questo mi soffermerò, si osserva che l’investimento in istruzione consente di rivalutare le capacità personali e di accrescere le possibilità di impiego e di valorizzazione del merito. Questo è purtroppo vero fino a un certo punto: le ricerche indicano da sempre una correlazione fra possibilità di lavoro e di guadagno e titolo di studio, con un divario che si è ridotto per tutti gli anni Ottanta e Novanta, e poi in parte ha ripreso a crescere: tuttavia questo non è legato automaticamente al livello di istruzione, o meglio bisogna tenere ben presente che il livello di istruzione stesso è strettamente collegato, in Italia anche più che altrove, alle condizioni famigliari, e chi studia a lungo ha anche, per lo più, uno status socio economico elevato. Draghi sottolinea il peso delle condizioni di partenza, e l’importanza di introdurre misure di sostegno alla persona per far crescere l’equità, ma sottolinea anche, molto giustamente e realisticamente, che l’investimento in istruzione è necessario ma nonsufficiente. Per migliorare le opportunità economiche e professionali dei giovani non basta migliorare la qualità della formazione, a ogni livello, ma sono necessarie e prioritarie misure strutturali nel campo delle politiche economiche e del lavoro, che riducano ad esempio i vincoli burocratici e supportino l’imprenditorialità giovanile.
Alison Wolf, un’economista della London School of Economics, in un suo libro del 2002 dal provocatorio titolo “L’educazione conta? Mitologia del rapporto fra educazione e crescita economica” definisce le tre priorità dell’allora primo ministro Tony Blair “education, education, education” come una sorta di mantra evocato dai politici per evitare di prendere misure più sostanziali e forse più impopolari. Scrive la Wolf: “un governo che sia veramente interessato alla crescita economica deve essere molto attento e selettivo nello spendere per l’istruzione. Deve prevedere le dimensioni e la tipologia della domanda, deve capire che cosa deve pagare lo Stato e che cosa no, e deve garantire la qualità dell’istruzione. Il modo in cui funziona oggi il sistema formativo sembra ridurre la crescita piuttosto che incoraggiarla”.
Non è il “quanto” (o meglio, non è solo il quanto: è chiaro che i tagli indiscriminati non giovano alla qualità) ma il “come” che innesca pratiche virtuose di cui i giovani possono fruire, ed è soprattutto un collegamento fra politiche per l’istruzione e politiche per il lavoro e in generale politiche di welfare. Ma, direbbe Baglioni, “questa è un’altra storia di chi aspetta sulla riva”….