Fine luglio. Arles. La mattina splende sui giardini che Van Gogh dipinse nei suoi quadri e sulle pietre bianche dell’anfiteatro romano, nella luce unica dell’estate in Provenza. L’ombra di un vicolo è netta, invitante. Pochi passi. Sul muro un piccolo manifesto, anonimo. Formato A4. Carattere Arial. «Soyons réalistes ne domandons rien».
La parabola del desiderio e delle emozioni finisce qui. Dal grido del Caligola di Camus, diventato slogan del maggio degli studenti francesi (“Siate realisti, domandate l’impossibile”) al niente. Poche righe, anonime. Senza punteggiatura. Rien. Niente. Così finisce anche la parabola della ragione. Niente da domandare. Niente da cercare o da ricevere. Rien.
E’ possibile, anzi probabile, che il manifesto anonimo lo abbia scritto un ragazzo, un prodotto delle nostre scuole (francesi o italiane, poca è la differenza). Uno di quelli che la scuola l’ha subita, pur sopravvivendo ad essa (a giudicare dalla sua conoscenza della letteratura del ’900…). Uno dei tanti. Uno dei quasi tutti. Se il problema è che la scuola debba privilegiare le emozioni, i desideri o piuttosto la razionalità cartesiana, la questione è risolta in partenza: non si va da nessuna parte. Non si va verso la scuola depositaria di cultura, tradizione e moralità civica, severa istitutrice dei figli della Nazione o della Repubblica, perché essa è stata sbugiardata e scardinata da tutta la cultura contemporanea, anche da prima del ’68. Non si va verso la scuola delle emozioni, parco giochi e ammortizzatore sociale, luogo di aggregazione e socializzazione, resa inutile dalla crisi irreversibile del nostro modello socialdemocratico di sviluppo e noiosa dalla potenza anarchica dei media.
Il dibattito sul tema delle emozioni, aperto da IlSussidiario.net dopo il bell’articolo di Marco Lodoli su Repubblica del 31 agosto scorso è approdato a un punto importante: occorre recuperare una misura diversa della ragione, non contrapposta alla sfera emotiva della persona. Questo recupero costituisce un tentativo di dar corpo al concetto di “ragione allargata” di cui Benedetto XVI parla, a partire dalla lectio magistralis all’Università di Ratisbona, fino al recentissimo discorso al Bundestag di Berlino.
Una ragione allargata è senz’altro elemento necessario alla scuola di oggi, esattamente come la passione e l’abnegazione degli insegnanti, testimoniata anche da diversi articoli e da alcuni commenti ad essi.
Occorre però sottolineare, già da subito, che il superamento della riduzione razionalistica della ragione a misura delle cose non si esaurisce nella semplice “aggiunta” della sfera emotiva, che di per sé, intesa in senso stretto, non è altro che il riverbero reattivo e soggettivo all’impatto della persona (e quindi, nel caso della scuola, dell’allievo e del docente) con la realtà e il suo senso. Bisogna quindi avere presente che l’allargamento della ragione, per essere effettivo, va verso il recupero dell’oggettività della realtà, del suo senso e della sua origine. In quanto oggettiva, la realtà (così com’è, rintracciabile e riconoscibile dall’allievo come presente nella sua esperienza) deve essere oggetto (chiedo venia per il gioco di parole…) della testimonianza del docente e di un rapporto “interessato” e “utile” da parte dello studente. O meglio, dei docenti e degli studenti, essendo la scuola una istituzione necessariamente “collettiva”. Credo ci si debba riferire a questo anche quando si fa riferimento alla passione degli insegnanti, per non ridurla a reazione emozionale.
E’ qui che si situa la domanda fondamentale: la “ragione allargata” gioca il suo ruolo solo a livello interpersonale (docenti-allievi) all’interno della scuola, quasi a prescindere dalla sua struttura intesa come sostanzialmente data (e ininfluente), o invece è in grado di modificarne in profondità gli assetti, l’oggetto, la funzione e il governo? Credo sia questo il punto lavorando sul quale si possa cominciare a intravedere un orizzonte di possibile recupero del senso del fare scuola.
Sono consapevole dell’obiezione che può essere fatta a questa impostazione, e in parte condivido le preoccupazioni dalle quali nasce: non è dalla politica, dall’ideologia o dall’ingegneria sociale che la scuola e l’educazione possono essere salvate, ma piuttosto dalla testimonianza e dall’umile e paziente lavoro di ognuno di noi nelle classi con gli allievi e nei consigli con i colleghi.
Vero. Ma è altrettanto vero che le ultime cariche della cavalleria polacca contro i carri armati tedeschi furono momenti epici di struggente eroismo, ma non riuscirono a salvare la Polonia dal nazismo e contribuirono – loro malgrado – alla scomparsa del nerbo sociale, economico e culturale di una nazione, caduto sul campo di battaglia.
Fuor di metafora, l’impegno di tanti di noi nel trasmettere il bello e il vero nel rapporto quotidiano con i nostri ragazzi, la passione profusa a prescindere da riconoscimenti economici e sociali e sorretta da motivazioni umane profondissime, rischia di riguardare solo l’aspetto educativo e personale dell’incontro con i giovani, ma di non incidere sul futuro – drammatico e incerto – e sul senso dell’esistenza dell’istituzione sociale chiamata scuola. Di rimanere, alla fine, frustrato e frustrante.
«Ciò che interessa alla scuola è una ragione intelligente, profonda, capace di tutto il reale, e questo perché all’uomo essa offre la possibilità di ritornare alle sue istanze fondamentali (la felicità, il dolore, l’amore, il senso delle cose, la capacità di bene e di male, ecc.), e una sintesi tra sapere e credere, due modalità di conoscenza, che utilizzano aspetti diversi di medesime capacità operative della stessa ragione» dice Manuela Cervi nel suo penultimo articolo: ma che forma di scuola è in grado di accogliere questa “ragione allargata”; che forma di scuola può esserne edificata senza che essa – la ragione – sia mortificata o resa ininfluente, decorativa? Quali sono le condizioni per cui la “ragione allargata” può essere elemento effettivo di ricostruzione della scuola italiana di oggi e dei prossimi decenni? Chi sono i possibili, concreti alleati per questa ricostruzione, tenendo conto che la scuola non è (e non è auspicabile che sia) l’unico luogo di esperienza di vita e di educazione/introduzione ragionevole e ragionata alla realtà del ragazzo? Il mondo del lavoro? Le famiglie? Potranno partecipare davvero agli scopi della scuola, contribuendo a determinarne le condizioni operative? Attraverso che oggetti di studio e lavoro gli studenti potranno essere introdotti a questa “ragione allargata”? Che spazio e che funzione avranno la loro risposta, la loro responsabilità e il loro lavoro? E ancora, quale sarà lo scopo della scuola, nella trasmissione e diffusione della cultura espressione della “ragione allargata”, nel contesto più ampio della società? Attraverso quali percorsi, curricoli, strutture orarie e organizzative questo scopo e questo ruolo saranno perseguiti? Chi avrà titolo per insegnare al suo interno, e chi per accedervi come studente? E chi la governerà?
«“Che cosa è l’uomo?”: questa è la domanda-chiave della civiltà e perciò anche dell’educazione e perciò della didattica» secondo Giovanni Cominelli. “Qual è il fuoco e il centro di una scuola buona per lui, in grado di intercettare il suo interesse, e utile alla sua vita, sia che sia studente, docente o genitore?” è la domanda complementare.
Le risposte le dobbiamo a noi stessi e al senso del lavoro che facciamo, e alle centinaia di migliaia di ragazzi che sono tentati di non domandarci più nulla, credendo di essere realisti.