Di fronte ai problemi che il nostro sistema formativo presenta oggi nascono due domande: per quali ragioni e attraverso quali percorsi si è modificato l’equilibrio culturale e politico che ha di fatto per un secolo caratterizzato il problema scolastico in Italia; perché la sparizione di una domanda esplicita relativa alla libertà scolastica non solo ha profondamente modificato il quadro entro cui si iscrive il confronto su questi temi, conseguenza questa da molti considerata positiva, ma lo ha di fatto così impoverito da rappresentare una delle cause più rilevanti di molti dei problemi che oggi caratterizzano il nostro sistema formativo.
Anche se in realtà la richiesta è stata prevalentemente portata dai cattolici, l’esigenza che si esprime nella richiesta di “libertà di educazione” non è per nulla confessionale, e quindi per definizione di parte, ma mette in gioco tutte le dimensioni del sistema: da quelle pedagogico-didattiche a quelle organizzative a quelle più propriamente politiche, che riguardano cioè la risposta che si offre al bisogno di istruzione, che è individuale ma anche dell’insieme della società organizzata. Potremmo anzi dire che quest’ultimo aspetto rappresenta il cuore della questione, e non può essere dimenticato senza che anche altre dimensioni della libertà vengano di fatto compresse, anzi, ancor prima, svuotate del loro più profondo significato. Non a caso la domanda di libertà di insegnamento – in particolare nella sua accezione di “libertà di istituire scuole” che si accompagna e completa il più riduttivo significato di “libertà dell’insegnante di insegnare secondo coscienza” – rappresenta il “tema” (di fatto il più significativo) attraverso cui nel nostro Paese si è resa presente in modo esplicito e consapevole la questione del rapporto tra società, stato e sistema formativo. Su questa avranno perciò grande peso non solo e non tanto le scelte ‘di principio’ in quanto tali ma piuttosto se e come esse rappresenteranno un effettivo riferimento primario per le scelte che orienteranno i concreti cambiamenti del sistema di istruzione.
Ripercorriamo la strada compiuta a partire dalla conclusione della seconda guerra mondiale. Ai cattolici, fino ad allora minoranza politica (ma non culturale) viene affidata la guida politica del Paese, dapprima (Assemblea Costituente) con un mandato limitato, poi (18 aprile 1948) con un mandato pieno. Il partito cui fanno esplicito riferimento, la Democrazia Cristiana, rappresenta la punta emergente di una presenza socialmente molto più rilevante, la cui costruzione è stata avviata ancor prima dell’unificazione politica del Paese ma fin dall’inizio accompagnata da una riflessione. In questo ripensamento un peso assolutamente rilevante è quello delle Settimane Sociali che hanno inizio nel 1907, verranno sospese a metà degli anni trenta, riprenderanno dopo un decennio, nella nuova condizione politica che pone al loro centro non più solo il problema di una lettura dell’esperienza sociale in atto alla luce dei “principi” ma di come questi stessi principi possano sostenere le nuove (e pesanti) responsabilità di governo.
Questo cambiamento determina un mutamento di prospettiva che, in quanto non avvertito, o non pienamente avvertito, ha come esito un radicale mutamento sul piano del metodo, cioè della cultura con cui si opera. Se è facilmente comprensibile che in questi appuntamenti l’attenzione si sposti su temi nuovi (grande spazio viene dato ai problemi sociali ed economici mentre si riduce la attenzione a quelli istituzionali e antropologici) meno immediatamente evidente appaiono le ragioni del cambiamento della prospettiva da cui si parte. I problemi concreti cui si fa riferimento vengono infatti presi in considerazione non più facendo diretto riferimento alla modalità con cui sono presenti, sempre in realtà accompagnati da tentativi di risposta, parziali certamente ma non per questo meno significativi. Il riferimento sempre più elusivi diventano le scelte di governo.
La riflessione appare così, inevitabilmente, orientata verso un’interpretazione del compito di governare centrato sugli aspetti amministrativi e che mette così tra parentesi l’opzione che aveva caratterizzato la presenza politica dei cattolici, centrata su una diverso rapporto tra organizzazione sociale e organizzazione amministrativa. Anche quando, nel 1954 (famiglia) e nel 1955 (scuola), verranno affrontati i temi più sensibili alla prospettiva “sociale”, i “principi immutabili” vengono certamente riconfermati ma appaiono ininfluenti sugli orientamenti operativi e sulle scelte per il governo del sistema.
Sarebbe però sbagliato ritenere che questo orientamento sia solo conseguenza delle nuove responsabilità politiche. Su di esso, e sulla cultura che lo sostiene, ha certamente influito l’esperienza del fascismo. La concezione dello stato, che non è più percepito come vertice di una “piramide sociale” (famiglia, comunità locale, stato), tutte, secondo il principio di sussidiarietà, responsabili di rispondere ai bisogni sociali (“pubblici”). Lo stato viene sempre più percepito come lo strumento più efficace per operare per il miglioramento (progresso), e per questo è chiamato ad operare tanto sugli aspetti ‘pubblici’ quanto, e non solo indirettamente, sugli aspetti “privati” dei bisogni emergenti, se possibile anticipando l’intervento e non solo rispondendo a domande formulate dagli interessati.
Uno stato quindi non più (solo) “regolatore” delle comunità intermedie ma con crescenti responsabilità dirette nel rispondere ai bisogni individuali. Questa prospettiva prende forza anche dalla convinzione che tale scelta è resa necessaria dall’esigenza di far fronte ad una situazione in rapida evoluzione orientandone secondo un quadro razionale gli sviluppi. Questa “semplificazione” del rapporto politico sembra in un primo momento dare risposte positive ma, nel tempo, mostrerà tutta la sua fragilità anche enfatizzando la “massificazione” del popolo.
Evidentemente questo nuovo orientamento avrà effetti particolarmente forti tanto sulla direzione che verrà impressa al nostro sistema formativo, quanto nelle modalità di rapporto dello stesso sistema con il contesto (sociale, culturale, economico) cui il sistema stesso fa riferimento. Inizia così un percorso che, in poco più di un trentennio, ci porterà alla situazione di cui stiamo oggi sperimentando rigidità e contraddizioni. Per quanto riguarda la direzione, dopo il passaggio segnato dalla necessità di dare all’Italia un nuovo quadro, il confronto che avviene nella Costituente – che si chiude con inevitabili compromessi, in particolare tra le due maggiori forze politiche, Democrazia Cristiana e Partito Comunista – è seguito dagli anni della ricostruzione, quelli chiamati della “occupazione dello stato” da parte dei cattolici ma forse sarebbe più corretto chiamare anni in cui i cattolici sono stati catturati dallo stato.
Il caso delle politiche scolastiche è particolarmente indicativo. Già il lungo ministero Gonella è segnato da scelte, anche molto significative, ma che sembrano ignorare le “affermazioni di principio”. Segni di questo cambiamento sono la creazione degli istituti professionali di stato triennali effettuata con un semplice atto amministrativo, in palese contraddizione con quanto sancito dalla Carta costituzionale e la creazione dei Centri didattici nazionali, chiamati a sostenere lo sviluppo dei diversi gradi e ordini del sistema formativo. L’intenzione, certamente buona, di sostenere il miglioramento della scuola raccogliendo le forze migliori della cultura e dell’associazionismo viene così perseguita integrando ricerca accademica e iniziativa associativa in una posizione organicamente subordinata rispetto all’Amministrazione di cui diventano di fatto “ausiliari”. E in questa scelta possiamo facilmente scorgere l’influenza dell’esperienza compiuta da molti dei protagonisti degli anni cinquanta nella formulazione della Carta della Scuola voluta da Bottai negli anni trenta.
Queste scelte acquistano un significato più pregnante perché accompagnate da alcuni cambiamenti che in quegli anni segnano la cultura pedagogica. Un conflitto più antico, tra pedagogia cattolica e idealismo gentiliano, che non si esauriva nel confronto, spesso aspro, ma trovava nella centralità in educazione del soggetto (la singola persona) un saldissimo, anche se non sempre esplicitamente dichiarato, punto di incontro. Un secondo, più recente conflitto era quello che vedeva su fronti opposti il marxismo, che rifiuta la pedagogia della cultura laico-riformista giudicata “borghese”, anche quando questa supera l’idealismo di Gentile (di cui non si può dimenticare la compromissione con il fascismo) e scopre Dewey. La figura di Dewey diventerà il punto di incontro che segnerà il “pensiero comune” pedagogico a partire dalla fine degli anni cinquanta. I cattolici si avvicineranno alle sue posizioni attraverso gli autori dell’ attivismo “cristiano” i marxisti a seguito della scelta di aderire la scelta, teorizzata da Gramsci, di arrivare al potere attraverso la conquista dell’egemonia culturale, scelta che comportava tempi certamente lunghi e richiedeva una politica di alleanze diversa rispetto a quelle necessarie per una conquista diretta del potere.
Bastano pochi anni e la prospettiva culturale rappresentata dall’attivismo diventerà il criterio ordinativo della politica scolastica. La legge istitutiva della Scuola media unica dell’obbligo è la più compiuta espressione di questa scelta e non a caso diventerà il riferimento di tutte le riforme successive; la centralità del fine educativo della scuola, il considerare le condizione sociali presenti “condizionamenti” da contrastare, e l’attribuire alla scuola il compito esplicito di favorire il cambiamento sociale ritenuto necessario per il futuro accanto all’enciclopedismo dei programmi, sono segni evidenti di quanto diciamo. Su questi aspetti le tre “culture pedagogiche” presenti in Italia, cattolica, laico-riformista, marxista, troveranno un accordo che diventerà sempre più convinto. Sul piano culturale si arriverà così molto rapidamente ad una sostanziale omologazione e l’associazionismo degli insegnanti, espressione delle diverse culture, si identificò nel compito di promozione e sviluppo di un sistema formativo caratterizzato da una sua compiuta integrazione con lo stato e la sua amministrazione: evidentemente questa scelta metteva fuori gioco l’idea stessa di libertà di educazione attorno a cui per oltre un secolo si era battagliato; insieme alla libertà di educazione veniva però messo fuori gioco anche il tema di un rapporto “paritario” tra società e sistema formativo cui viene assegnato, proprio in quanto espressione dello stato-persona, il compito di “promozione” sociale.
Certamente questo percorso incontra ancora resistenze, almeno nel primi anni. Due episodi sono, a questo proposito, molto significativi, anche se per ragioni differenti: nel 1964 la decisione di Moro di far cadere il governo da lui presieduto perché l’istituzione della scuola materna statale non rappresentasse una sentenza di morte per le scuole materne che da più di cento anni rispondevano al bisogno educativo e di cura dei bambini in età prescolastica; nel 1973-74 la emanazione di quelli ancor oggi ricordati come i “decreti delegati” in cui, tra moltissime scelte in linea con la tendenza dominante (molto significativa a questo proposito è la definizione data della figura dell’insegnante), si proponevano due scelte in controtendenza: la creazione di organi collegiali aperti anche a soggetti non appartenenti alla amministrazione e la possibilità per l’insegnante, da solo o insieme ad altri colleghi, di avviare forme di scuola differenti rispetto ai moduli stabiliti dal centro. Non credo sia necessario documentare l’esito effettivo di queste scelte che, anche se non mai abrogate, sono di fatto ignorate anche da chi per primo avrebbe il dovere di obbedire alla legge.
Tutti i più significativi passaggi di questo percorso politico, a partire dalla legge istitutiva della scuola media unica, sono sempre stati giustificati con la necessità di “attuare la Costituzione”. In troppi casi però la lettura del dettato costituzionale è stata assolutamente parziale, non si sono volute contemperare le diverse indicazioni in essa contenute ma alcune sono state assolutizzate (in particolare gli artt. 2 e 3), altre sostanzialmente distorte (alcune parti degli artt. 33 e 34 espressamente dedicati alla scuola), altre ancora assolutamente ignorate (la maggior parte degli stessi artt. 33 e 34 e tutto quanto stabiliscono a proposito dell’istruzione e dell’educazione gli artt. 29 e 30 dedicati alla famiglia).
Le indicazioni costituzionali ignorate sono quelle che, nel loro insieme, stabiliscono contrappesi alla primaria funzione riconosciuta allo stato relativamente al sistema formativo pubblico. Il “dovere diritto” dei genitori relativamente all’istruzione e all’educazione dei figli viene travolto da una interpretazione del dettato dell’art. 34 che interpreta l’obbligo “di istruirsi per almeno otto anni” come obbligo di frequentare la scuola statale che è cosa del tutto differente; il “diritto di Enti e privati di istituire scuole” viene relegato in un angolo perché interpretato a partire dal problema del finanziamento (ricordiamo il “senza oneri per lo stato”) e non a partire dal significato corretto di questa espressione: istituire scuole infatti non significa “aprire scuole”cma piuttosto essere partecipi della possibilità di aprire scuole secondo modelli didattici e organizzativi differenziati. In altri termini è stato tralasciato tutto ciò che nella Costituzione ha a che fare con la libertà di insegnamento, intesa sia secondo la tradizionale cultura liberale, cioè come libertà individuale (un aspetto della libertà di coscienza) sia come libertà sociale e quindi politica (cfr. principio di sudssidiarietà).
Di questa dimenticanza si sentiranno ben presto gli effetti che possono essere riassunti nella incapacità della scuola a rinnovarsi in un rapporto di dialogo positivo con l’evoluzione della società. Ma queste sono le questioni con cui ci stiamo misurando ormai da più di venti anni e a cui continuiamo a non riuscire a dare rispostre convincenti.
(3 – continua)