Il particolare frangente politico che il Paese sta attraversando, in seguito alle dimissioni di Berlusconi e all’avvio di un nuovo esecutivo “del Presidente” proiettato verso l’Europa e dalla stessa guardato a vista, trova la scuola italiana non indenne dal medesimo paradosso che attraversa tutti gli altri campi della politica: occorre prendere (e subito) quelle decisioni che sono necessarie per fare decollare una scuola qualitativamente diversa dall’attuale, una scuola capace di competere con quella dei principali sistemi europei, conservando la parte più nobile della tradizione culturale che la caratterizza. Misure che nessuna delle parti politiche oggi in campo ha tuttavia avuto il coraggio di attuare quando le è toccato di governare, nemmeno l’ultima, e che invece possono/devono essere avviate per trasformare in un vantaggio quella che sembra solo una contingenza eccezionale.
Nel Piano programmatico del Ministro Gelmini del settembre 2008, stilato a pochi mesi dal suo insediamento in Viale Trastevere, di Europa ce n’era fin troppa, insieme a tutta una serie di sollecitazioni internazionali. La logica che lo presiedeva era molto semplice, in fin dei conti: vi era scritto che, valutando l’Ocse negativamente il nostro sistema di istruzione (dato che a fronte di una spesa per allievo e di un rapporto insegnante/studenti superiori alle medie Ocse, il risultato era quello di un ritardo dei livelli di conoscenza e di competenza degli apprendimenti negli alunni quindicenni, rispetto ai loro coetanei dei paesi industrializzati) era necessario introdurre forme di “razionalizzazione” delle modalità organizzative e didattiche. La categoria della “razionalizzazione” delle risorse, del contenimento della spesa pubblica e finanche della didattica ha improntato di sé la politica scolastica del Ministro Gelmini con un limite: quello di mutuare il suo peso specifico dalla legge finanziaria 2009 (L. 133/2008) piuttosto che dalla volontà di potenziamento e incremento delle più significative esperienze di scuola in atto nel Paese.
In altri termini, le forti spinte dell’Ocse e dell’Europa (si pensi al ruolo dei documenti europei su “competenze chiave” e “qualifiche dell’apprendimento permanente” nella riforma degli istituti tecnici e professionali), sono state lette e tradotte secondo schemi economici o funzionali ad un migliore andamento della macchina, senza che venissero adeguatamente valutate e ottimizzate le opportunità di scuole e docenti già impegnati nel processo di potenziamento dell’offerta formativa ed educativa. In una sorta di intreccio inestricabile di essenzialità e tagli, si è così arrivati ad una serie di provvedimenti di riordino che sarebbe difficile denominare appieno “riforme” per la mancanza di una visione generale del sistema scuola che isola, rendendoli di fatto vani, alcuni aspetti condivisibili come, per esempio, le quote di flessibilità dei piani di studio introdotte nella secondaria superiore.
La riorganizzazione della rete scolastica ha prodotto accorpamenti, gli organici del personale sono stati “asciugati”, la scuola primaria ha riavuto il maestro prevalente, la scuola superiore di primo e secondo grado è stata profondamente ritoccata, sono stati realizzati risparmi: tutto questo senza che la pur limitata autonomia didattica delle scuole si trasformasse di fatto in autonomia organizzativa e, soprattutto, senza che si procedesse ad una radicale revisione e rivalutazione del profilo professionale dei docenti. Lo scheletro ha retto, ma la carne ne è uscita ferita.
Non a caso l’ultima pietra d’inciampo nella quale si è imbattuto il Miur è stata la drammatica circostanza dei neolaureati e/o giovani insegnanti non abilitati in attesa (vana) di un’applicazione del Regolamento per la formazione iniziale dei docenti emanato con decreto nel 2010 e in gran parte tradito dalla prima norma attuativa: il DM 139/2011, quello in cui si enuncia, nelle premesse e in modo del tutto arbitrario, il principio per cui il calcolo del numero delle abilitazioni da assegnare alle università è circoscritto al fabbisogno (cioè alla quantità dei pensionamenti previsti) e che, inoltre, tale fabbisogno “determinato a livello regionale, è numericamente esiguo”. Il manifesto “L’Italia è un Paese per vecchi?” firmato da personalità della scuola, della cultura e da tanti cittadini (oltre 14mila firme in quattro giorni di esposizione sull’omonimo sito) bollava tale atteggiamento come ”un macigno sullo sviluppo del nostro Paese”.
Si torna, a questo punto, ad un cruciale passaggio rispetto al quale dovrà misurarsi il nuovo esecutivo nel campo dell’istruzione: rispondere alla domanda di formazione e di educazione delle nuove generazioni, soprattutto attraverso immissioni di nuove leve di insegnanti preparati, senza ledere i diritti precedentemente acquisiti dai docenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento, e nel contempo procedere ad un’innovazione profonda dei meccanismi che presiedono il reclutamento, la formazione in itinere, la professione docente nel quadro dell’autonomia delle reti di scuole e istituti. È questo, tra l’altro, il senso delle richieste di chiarimento dell’Unione europea, relative alla lettera indirizzata dal premier Berlusconi al presidente del Consiglio europeo e al presidente della Commissione europea lo scorso mese di ottobre. Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test Invalsi? Come intende il governo valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivo il governo intende varare?
È un boomerang che si ritorce contro: introdotto nella fase appena trascorsa un richiamo alla cultura del merito (la meritocrazia di Abravanel!) nelle valutazioni degli alunni e delle scuole, o si va fino in fondo, col rischio di scimmiottare forme di organizzazione della scuola e della didattica che possono avere risultati clamorosi sul piano degli accertamenti continui cui la scuola è sottoposta, ma riducono l’apprendimento al banale addestramento; o si cambia marcia guardando alle migliori tradizioni umanistiche, cattoliche e liberali dei sistemi di istruzione di alcuni Paesi e soprattutto del nostro: come hanno dimostrato, anche su scala europea, alcune regioni che prese singolarmente eccellono negli indici Invalsi e Ocse-Pisa (Lombardia, Trentino, Puglia).
Da questo punto di vista sarebbero sufficienti due provvedimenti (solo due) che potrebbero rimettere in moto energie positive e godere tra l’altro di un ampio e trasversale consenso. Il primo: separare l’abilitazione dal reclutamento, per permettere ad un numero adeguato di giovani di conseguire la sospirata idoneità all’insegnamento e contemporaneamente disegnare una nuova normativa che liberalizzi la professione docente e le forme dell’assunzione. Secondo: introdurre una reale autonomia finanziaria degli istituti scolastici, consentendo alle scuole di agire come entità che responsabilmente (cioè secondo criteri riconosciuti validi pubblicamente) possono scegliersi il proprio personale (o una parte consistente di esso) senza venire meno a forme di valutazione esterna del loro operato.
Riforme che costano? Quasi zero. Benefici? Enormi. Per noi e per l’Europa che avrebbe questa volta da imparare da noi.