Ho riflettuto molto sull’articolo di Paolo Ravazzano, che porta un affondo su un tema già toccato varie volte su queste colonne. Mi sono venuti in mente, fra gli altri, due episodi recenti che tanto per cambiare tirano in ballo le case editrici.

Caso A. Sento un collega che ha pubblicato un gran bel libro di testo liceale, nel quale l’editore aveva preteso alcune “correzioni” per far posto a una certa quantità di luoghi comuni e fuffa, di cui pare che i nostri colleghi non riescano a fare a meno: non importa che sia roba arcaica, farraginosa o semplicemente fasulla. Ora sta lavorando al seguito e mi scrive che, di nuovo, alcune pagine chiare ed innovative non piacciono, mentre la fuffa “deve” esserci: tu che dici, continuo o mollo tutto? Mica posso risponderti che è la prima ragione per cui ho smesso di scrivere libri: insisti, tu che ce la fai ancora.



Caso B. Oltre un anno fa mi scrive dalla California uno scienziato che nel suo campo è il n.1. Dice che, tra le varie traduzioni di un suo testo, ci terrebbe ad averne anche una in italiano, ma non riesce a trovare un editore; se lo trovo, chiederà che sia io a tradurlo. Il libro l’avevo già letto: è un capolavoro, una pietra miliare a livello accademico e al tempo stesso una brillante alta divulgazione, tra chimica, storia e filosofia. Vende alla grande, ma soprattutto durerà nel tempo, l’ideale per ogni biblioteca. Incredulo per l’occasione, cerco porte a cui bussare, invio anche qualche saggio di traduzione, per sentirmi dire no, vede, la nostra linea editoriale… ci spiace ma… Diversi personaggi non mi hanno nemmeno risposto, ma si sa che usa così – non sono sprezzanti: sono timidi.



Sarebbero solo due episodi e non del tutto equivalenti, ma credo suonino familiari. E’ difficile che i nostri editori scientifici (e quella loro variante sui generis che sono gli editori scolastici) abbiano uno scatto di coraggio, la capacità di proporre con forza un “prodotto” in cui si crede veramente e che merita di essere spinto e sostenuto. Così, troppi testi sono la brutta copia l’uno dell’altro, come se consulenti ed editors avessero tutti gli stessi paraocchi. E vale poco pensare che le stesse cose le ripeteva anche Stephen J. Gould e che tutto il mondo è paese.



A questo punto entrano in gioco le prime due questioni di Ravazzano: i libri sono cari, i libri sono malfatti. La prima non sarebbe dirimente. Se il libro è caro, lo posso considerare un investimento per il futuro, da conservare perchè si suppone che mi servirà. Oppure, posso rivenderlo – la cosa a un bibliomane da’ un brivido, ma è vero che parecchi libri probabilmente saranno superati fra qualche anno, e non è un male che nel frattempo qualcuno possa usufruirne a minor prezzo. Infine, è sempre esistita la pratica di concedere i libri in prestito (gratuito o in leasing) da parte di biblioteche e fondazioni. Il problema è che tutto questo salta quando il libro non vale la carta su cui è stampato (capita) oppure se ha un rapporto qualità-prezzo troppo svantaggioso, e questo è sicuramente il caso delle “nuove edizioni” più o meno farlocche contro cui si scagliano periodicamente stampa e TV.

La terza questione, quella dei testi ideologici, è stata una battaglia degli anni 70 ed 80, ma forse oggi è meno rilevante, perchè i problemi della didattica sono diventati ben altri (e le modalità di informazione alternative sono alla portata di tutti). Più che l’ideologia, mi preoccupano la moda ed il conformismo – da cui eravamo partiti – perchè sono quelli, che paralizzano le scelte. Il calmiere dei prezzi, le decisioni vincolanti per un lustro prese nel bailamme degli organi collegiali (dove non ha voce l’insegnante anticonformista, specie se è un giovane ancora entusiasta) in realtà non fanno che sclerotizzare la piaga.

Perchè i testi siano usati e valorizzati, allora, l’alternativa migliore mi sembra proprio quella di toglierne l’obbligatorietà, rendendo reale e generalizzata l’opzione “testo consigliato”. Far sì che, al posto di distribuire gli elenchi degli acquisti obbligatori, stilati da docenti che perlopiù non saranno quelli che gli studenti incontreranno in aula, il docente realmente incaricato dicesse all’inizio dell’anno “io userò per buona parte delle mie lezioni questo testo, e me ne assumo la responsabilità di fronte al portafoglio dei vostri genitori”.

Attenzione: usarlo significa farlo leggere, discuterlo, integrarlo; smentirlo, quando serve. Quante volte ho sentito dei colleghi dire che “il libro lo usano solo per gli esercizi”. È il segno di un doppio fallimento: perchè il testo dovrebbe essere un oggetto di lettura e di studio, dove trovare in modo ordinato gli elementi consolidati di una disciplina, mentre se c’è una cosa che non dovrebbe mai essere standard sono proprio gli esercizi, che il docente dovrebbe rivedere e discutere hic et nunc, in funzione della propria didattica con questa classe, con questi problemi e dubbi che sono emersi durante le lezioni. Ci sarà sempre una serie di esercizi di base da usare come allenamento generale, ma per quelli basta un repertorio o una banca dati.

…Se prevalesse questa linea, ed è stato ribadito anche di recente, potrebbero finalmente essere usati i tanti testi e dispense già accessibili liberamente in rete, da stampare o leggere a video secondo la necessità e l’opportunità. Diventerebbe naturale mettere a confronto testi finalmente diversi, che anzi facciano a gara nel non essere omologati. E magari in lingua straniera, perché no? Certo, ho in mente le scuole superiori e soprattutto i trienni finali, ma mutatis mutandis ci si può provare anche prima. Quant’è formativo costruire criticamente le proprie dispense con la collaborazione dei propri studenti?

Se poi dovessi suggerire il formato, consiglierei una struttura conclusa e compiuta (epub, pdf o giù di lì), su cui magari applicare un bel codice ISBN. Il meccanismo “wiki” è invece troppo labile, manca di responsabilità, della tracciabilità di un vero autore; è già provato quanto sia comodo per chi vuole prevaricare le opinioni altrui. Vorrei infatti che fosse chiaramente identificabile chi ha coordinato il lavoro e di chi sono i diversi contributi, non solo per rendere legittimo merito a chi ha faticato, ma anche per sapere con chi prendermela se trovo qualcosa che non mi convince, o con chi scambiare suggerimenti. La logica di Fuenteovejuna va bene per fare la rivoluzione, ma non mi sembra utile per costruire.

Case editrici più accorte potrebbero serenamente profittare di questa selezione naturale per far proprie opere da sviluppare in un testo a stampa, con migliorie ed integrazioni che giustifichino la spesa d’acquisto, il che sarebbe del tutto praticabile con un appropriato uso delle licenze Creative Commons. Così ridurrebbero il vortice di spese inutili che girano intorno alle copie saggio, concentrando il business su opere di reale valore. E potremmo  dire il testo obbligatorio è morto, viva il libro!

Oggi come non mai siamo carichi di attese su quello che farà il nuovo governo, in uno stato di tensione che può spingerci a capire e condividere le ragioni di svolte radicali e finalmente sostanziali: non sarebbe male, se questo dibattito fosse seguito con attenzione dal prof. Profumo, specie ora che devono essere pubblicate le linee guida dei trienni per tutte le scuole superiori.