Un secolo fa Weber si chiedeva “perché gli uomini obbediscono?” oggi la domanda è rovesciata: “perché gli uomini non obbediscono più?”. L’autorità è andata via, si è consunta e, un po’ per volta, si è delegittimata.

Probabilmente la prima a logorarsi è stata l’autorità fondata sulla tradizione. L’autorità dell’eterno ieri è andata rapidamente scemando quando le novità hanno spodestato le eredità, quando ciò che arrivava si è rivelato non solo quantitativamente superiore, ma anche qualitativamente più efficace rispetto a quanto già c’era. Un tale processo non ha caratterizzato solo le tecniche di lavoro ma anche i modelli di organizzazione politica ed economica che ne derivavano e che sono stati hanno progressivamente messi fuori circolo dai nuovi principi regolativi. Ancora oggi, quando si parla di crisi dell’autorità, si tende a ritenere proprio la crisi di quanti esprimevano competenze, regole e comportamenti di un universo che non c’è più.



Il quadro è diverso se si esamina l’autorità burocratico-legale. Questa in realtà è ancora oggi estremamente rispettata, ma solo là dove le organizzazioni sono funzionalmente connesse ad un processo reale di qualificazione, selezione e controllo. Gli insegnanti che operano in scuole professionalmente qualificanti, dove il prestigio del titolo conseguito viene confermato da un immediato inserimento nel mondo del lavoro o da un riconosciuto accreditamento presso gli istituti di formazione superiore, possono contare su un rispetto sufficiente delle norme e quindi della loro autorità. Il contrario si produce invece là dove il prestigio del titolo è generico, quando non addirittura francamente scarso e il collegamento funzionale con il mondo del lavoro assolutamente aleatorio o comunque indipendente dalla qualità dei risultati conseguiti.



Tuttavia quando si parla di crisi di autorità si indica qualcosa di sostanzialmente diverso: la perdita di credibilità di per sé, cioè di quella capacità di essere influenti e riconosciuti in relazione ad uno stretto legame che lega le funzioni che si esercitano alla propria persona. Ciò non accade ovunque ma solo in quei ruoli che, in parte più o meno rilevante, si accompagnano ad una scelta vocazionale. Molte autorità rientrano in quest’ambito: un sacerdote, ad esempio, non è solo un “addetto al culto divino”, ma è anche una persona che, in un modo del tutto specifico, si è consacrato interamente ad una precisa missione nel mondo. Lo stesso avviene per chi è padre e, più in generale, per chi vive la propria funzione in termini di scelta vocazionale personale.



In modo più modesto ma non meno rilevante lo stesso educatore è osservato come colui che ha compiuto la propria scelta professionale sulla base di una decisione personale, fatta in relazione a valori morali e civici più che ad interessi materiali.

Il mancato rispetto dell’autorità indica qui un mancato riconoscimento proprio di questa componente vocazionale. Tutto si manifesta come se chi svolge questi ruoli fosse percepito come qualcuno che si fosse ritrovato a farlo in modo casuale. Un padre che non è rispettato è, in primo luogo, un padre nel quale non viene riconosciuta la dimensione vocazionale, un “padre per caso” che, indipendentemente dalla sua volontà, si è ritrovato ad esercitare questa funzione e non vi ha aderito che in modo formale e istituzionale, senza farla propria, senza “sposarla”. Un insegnante che non è rispettato è, anch’egli, una figura professionale nella quale non viene riconosciuta la dimensione vocazionale, che è quindi “insegnante per caso” e avrebbe potuto ricoprire qualsiasi altro incarico nell’amministrazione pubblica. Il problema del mancato rispetto dell’autorità è pertanto direttamente conseguente alla mancata visibilità della dimensione vocazionale presente in tutti quei ruoli e quelle funzioni che in modo esplicito o latente la presuppongono.

Ma è proprio qui il cuore del problema: da chi deriva il mancato riconoscimento della dimensione vocazionale? Non sempre è colpa del padre, del sacerdote, dell’educatore. Non sempre questi sono i primi a porre in ombra la dimensione vocazionale giudicandola “troppo ingombrante” a favore di una “professionalità” disincantata e interamente rinchiusa nel profilo istituzionale. Molto più spesso è il quadro sociale dei ruoli che interviene, a priori. È a priori che si ritiene che un docente non abbia vocazione per il suo lavoro, un padre non abbia la vocazione per il proprio ruolo e, almeno nel passato, quando l’anticlericalismo era l’ideologia dominante, un prete non avesse la vocazione ma occupasse il ruolo solo per ragioni strumentali. Nella nostra società lo stesso termine di “vocazione” è in disuso. Ce ne siamo sbarazzati molto rapidamente, come di un fardello morale troppo pesante e concettualmente ingestibile, senza renderci conto che era proprio questo che fondava la nostra autorevolezza.

Il mancato riconoscimento dell’autorità in questo caso è direttamente speculare ad un’invisibilità della dimensione vocazionale, cioè di quel richiamo del “cuore” che è alla base di tutte le manifestazioni dell’autorità e le sorregge. Quando manca, oppure non viene visto, oppure non viene riconosciuto resta solo il ruolo formale, la funzione ricoperta, e questa non basta né può bastare.

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