Le domande che l’Ue ha posto all’Italia sulla scuola e che probabilmente orienteranno il programma di governo rivelano una buona conoscenza della nostra situazione ed alludono a eventuali e necessarie scelte. Chiedere dei provvedimenti per la ristrutturazione delle scuole che non funzionano non significa, certo, saltare all’altra riva, quando siamo a metà del guado, ma forse sottintende l’invito a darsi una mossa ad attraversarlo.
Parlare di “valorizzazione del ruolo degli insegnanti nelle singole scuole” e di “incentivi utilizzati a tale scopo”, non significa indicare come prima, se non unica via da seguire, quella della “merit pay” che sembrava essere stata imboccata con il ministro Gelmini, mentre ancora si tratta di costruire i pilastri della valutazione delle scuole, che peraltro non dispongono di una struttura organizzativa funzionale e stabile al loro interno…
Sul primo tema Abravanel e Cominelli hanno già fatto delle considerazioni di quadro fondanti: i dati sugli esiti debbono essere resi pubblici. E forse sono già state abbozzate delle strade per proseguire.
Proviamo a fare il punto? A 10 anni dall’inizio, l’operazione “Valutazione standardizzata esterna degli apprendimenti di base” sembra infine quasi in porto. Le resistenze, limitate a pochi territori e gonfiate da una stampa amica, probabilmente si attenueranno. Manca all’appello ancora l’esame di Stato di secondaria superiore; il ministro Gelmini aveva negli ultimi tempi fatto dei passi indietro probabilmente per motivi tecnici – mancanza di un riferimento autorevole a livello internazionale – e politici. Forse il nuovo clima governativo aiuterà ad accelerare i tempi.
Ma il problema sta nel cosa fare di quei dati, che per ora permangono largamente inutilizzati. Se è difficile sapere cosa accade ed è accaduto nelle singole scuole in proposito, non dovrebbe essere difficile accertare quante scuole scaricano i dati relativi ai risultati dei loro studenti. Quelli della Prova nazionale di terza media sono stati inviati proprio in questi giorni.
Tuttavia, valutare le scuole solo sulla loro base dei risultati immediati dei ragazzi non è sufficiente. Occorrono altri due passi: la determinazione del valore aggiunto delle scuole e la integrazione con altri dati di processo più qualitativi, eventualmente anche con gli esiti successivi degli studenti in termini di occupabilità o di successo universitario.
Quella del “valore aggiunto” è una strada inevitabile, già in parte percorsa dalla ricerca internazionale ed avviata anche dall’Invalsi, anche se forse non ci si possono attendere risultati ultimativi. Probabilmente si potranno individuare le ali di negatività e positività; dai primi esperimenti fatti in Italia sui dati Pisa, sembra che la statistica non ci aiuti fino in fondo a distinguere fra i valori aggiunti delle scuole che stanno nel gruppone di mezzo. Sarebbe già molto però: individuare e supportare i punti deboli e diffondere gli esempi positivi.
Non si tratta però solo di limiti tecnici. Le competenze di base sono essenziali, ma le scuole fanno anche molte altre cose, sia per l’aspetto cognitivo sia per le abilità ed attitudini cosiddette trasversali. Da questo punto di vista non sono ininfluenti le loro modalità di funzionamento. Sulla valutazione cosiddetta “di processo”, in Italia si è fatto molto, soprattutto alla fine degli anni 90, sulla spinta dei modelli europei; questo sia con la modalità “rete di scuole” sia utilizzando procedure importate da altri contesti, come la Certificazione di Qualità ed il modello per l’Eccellenza dell’European Foundation for Quality Management (Efqm).
Qual è stato il limite di queste esperienze? In primo luogo, come quasi sempre in Italia, non c’è stato un momento di centralizzazione e di sintesi. Invece di costituire i presupposti sperimentali di una pratica destinata a divenire istituzionale, questi modelli si sono avvitati inevitabilmente su se stessi e si sono spenti: la concomitanza con la diffusione del mito dell’autonomia ha autorizzato le autorità centrali a sfuggire alle proprie responsabilità. In secondo luogo, la parola d’ordine della autovalutazione si è sovrapposta al concetto di valutazione di processo. Ad un certo punto, anzi, si sono creati artificiosamente due schieramenti: valutazione esterna degli apprendimenti contro autovalutazione di processo. In realtà, le due modalità si debbono integrare per fornire un quadro veritiero della realtà delle scuole.
Ci vogliono strumenti che affianchino le prove per farle parlare – cercando di individuare anche le cause dei risultati dei singoli studenti – e strumenti che analizzino la realtà delle scuole, prendendone in considerazione tutti gli aspetti, per metterli in relazione con i risultati di apprendimento.
Da qualche edizione, le prove Invalsi sono affiancate dalla richiesta di dati alle scuole e da un questionario, da compilare a cura dei singoli studenti, come avviene ad esempio in Pisa. Lo scopo è quello appunto di correlare i risultati di apprendimento con alcune variabili ipoteticamente causali. Nel Rapporto del Servizio Nazionale di Valutazione del luglio 2011, le prime variabili indagate sono state il genere, la nazionalità e l’essere o no ripetenti. Di qui, per esempio, la conferma che la ripetenza non serve a migliorare gli apprendimenti. Queste variabili, accorpate a livello della singola scuola e non solo territoriale, possono produrne una fotografia, non solo relativamente alle caratteristiche individuali dei suoi studenti, ma anche alle sue modalità di funzionamento, viste in un certo senso dal basso. Anche qui il riferimento può essere Pisa, che indaga, attraverso quello che percepiscono gli studenti (il che è sempre un bell’indicatore), sul clima disciplinare, sulle modalità di insegnamento, sulle attività extracurricolari ecc…
È, inoltre, in corso di realizzazione la seconda sperimentazione partita nel novembre 2010 sotto l’insegna “Valutazione degli insegnanti”, ma che in realtà è una valutazione delle scuole, le quali, se valutate positivamente, potranno autonomamente decidere l’attribuzione ai singoli insegnanti della premialità prevista.
Una parte della valutazione deriverà dal valore aggiunto delle scuole, misurato attraverso le prove dl 1° e 3° anno della secondaria inferiore. Ma essa sarà integrata da una osservazione-valutazione sugli elementi generali del loro funzionamento. Le condizioni per una buona operazione sono la pluralità degli osservatori e delle loro competenze professionali ed una griglia di osservazione scientificamente validata, che preveda anche una attribuzione di livello per permettere la graduazione.
Si tratta di un modello diffuso anche in altri Paesi, abbastanza equilibrato, che potrebbe diventare una base accettata in modo ampio anche dagli operatori scolastici. Un modo sensato per cominciare a rispondere alla 13esima domanda dell’Unione europea.