Le classi miste stanno diventando la regola. E i bambini stranieri nati in Italia parlano un italiano quasi perfetto. Non e così per quelli di prima immigrazione, che pongono problemi più seri. Tocca alla scuola, oggi, fare da ponte. È stato il presidente della Repubblica a riaprire il tema della cittadinanza, la scorsa settimana. «Negarla» ha detto Giorgio Napolitano «è un’autentica follia, un’assurdità. I bambini hanno questa aspirazione». Parole che hanno suscitato, com’era prevedibile, reazioni contrastanti. La legge è chiara: si diventa cittadini italiani per diritto di sangue, non di suolo, come avviene negli Stati Uniti.
In un modo o nell’altro, la scuola è il primo, singolare «laboratorio» di un incontro che non conosce le formule del diritto, ma mescola la culture e accelera il cambiamento in modo irreversibile. «I flussi porteranno dal 2020 una persona su due a vivere nelle grandi città. Le persone scappano dalla povertà, dalla guerra, dalle persecuzioni religiose. Siamo già ora soggetti a flussi migratori nuovi, e obbligati a trovare uno sguardo diverso, globale» dice a IlSussidiario.net Maria Grazia Guida, vicesindaco di Milano e assessore con delega a educazione e istruzione.



Milano, da questo punto di vista, è una «frontiera» nazionale.

Sì. A Milano, in alcune scuole dell’infanzia – in via Padova per esempio – abbiamo il 60 per cento di bambini con mamme e papà stranieri. Nelle materne gestite dal comune di Milano, pari all’85 per cento di tutta l’offerta cittadina, siamo intorno al 30-32 per cento di bambini con genitori stranieri. Sono bambini che nella quasi totalità dei casi arrivano alle elementari parlando benissimo l’italiano.



Parliamo di figli di immigrati nati in Italia. E per quelli di prima immigrazione, invece?

Nel loro caso il flusso è attualmente rallentato, complice un po’ tutta la normativa che riguarda i ricongiungimenti familiari. È farraginosa, e rischia di tener i bambini nell’illegalità nei primi anni di arrivo a Milano. È però un fenomeno subordinato al primo, che è imponente.

Che cosa intendete fare?

Rendere visibili i bambini «invisibili»: garantire il pieno diritto all’istruzione, alla scuola materna, ai quei bambini per i quali non è stata del tutto formalizzata una regolarizzazione. La casistica è molto varia: bambini non residenti, figli di famiglie che hanno appena avviato il sistema di ricongiungimento, oppure di immigrazione recente.



Nelle «Indicazioni e raccomandazioni per l’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana» si parla di un limite del 30 per cento di bambini stranieri per classe. Che ne pensa?

Quelle linee guida lo prevedono per i bambini stranieri «con ridotta conoscenza della lingua italiana». Su questo tema, quando divenne un caso pubblico (il caso della scuola elementare di via Paravia a Milano, finito in tribunale, ndr) dissi al ministro Gelmini che la norma era stata interpretata in modo troppo rigido, perché abbiamo nelle scuole percentuali molto più alte di bambini con genitori stranieri – e quindi con cognome straniero – che in realtà sono dei «piccoli milanesi»…

Via Padova è un caso simbolo a Milano. Ce ne sono altri?

Nella «Chinatown» intorno a via Sarpi, dove parliamo di immigrati di terza generazione, le famiglie chiedono alla scuola che i bambini non perdano la padronanza della lingua madre. Ci sono progetti che coinvolgono insegnanti di cinese addirittura all’interno della parrocchia. Edgar Morin direbbe che dobbiamo educarci alla complessità dei nuovi tempi.

Ma che cosa vuol dire in pratica?

Che non dobbiamo vivere il confronto e l’intervento come spesso si è fatto in passato, in modo emergenziale o assistenziale. Vuol dire che siamo chiamati a una riorganizzazione della vita delle nostre scuole.

La classe docente è preparata, non solo dal punto di vista umano ma anche professionale, al cambiamento imposto dai tempi?

Io vedo che gli educatori più giovani hanno una consapevolezza e una capacità di affrontare il tema che i colleghi più anziani non hanno. Noi, come amministrazione comunale, attraverso le norme del diritto allo studio cerchiamo di far fronte alle situazioni più fragili all’interno delle scuole statali, oltre che nelle scuole dell’infanzia comunali. E vedo un moltiplicarsi di esperienze molto belle che portano i genitori ad incontrarsi, a creare un «meticciato» tra famiglie. Il problema sta piuttosto nella struttura.

Un deficit di flessibilità?

Sì, dal punto di vista burocratico è ingessata. Deve modernizzarsi. Ad esempio la difficoltà ad avere le cattedre coperte prima dell’inizio dell’anno porta a dover far fronte a vere e proprie emergenze, che si ripercuotono sui bambini più fragili. Fragilità, disabilità, integrazione sono i nostri fronti sempre aperti, ma una maggiore flessibilità potrebbe senz’altro rendere più funzionale la nostra offerta scolastica.

Quello che viene fatto nelle classi secondo lei ha una ricaduta sulle famiglie d’origine?

Dai segnali che provengono dalla nostra iniziativa «Maggio 12» – dove striamo ascoltando 3mila insegnanti delle nostre scuole comunali, materne e civiche, oltre a personale di coordinamento e famiglie – vediamo che il tema del dialogo coinvolge prima di tutto i genitori, che conoscono mondi diversi dal proprio. La risposta è stata ottima, segno che insegnanti e famiglie si sono sentiti protagonisti in un ambito dove la dialettica rischia di essere in prima battuta conflittuale.

La scuola è in funzione del dialogo, o viceversa?

Il dialogo serve costruire uomini e donne nuovi. I processi educativi sono al servizio della felicità dei singoli.

Nel dibattito inevitabile tra «ius sanguinis» e «ius soli», immagino che lei sia per il secondo. Ma l’Italia secondo lei è pronta?

Credo che sia il momento di avviare una seria riflessione, come ha inteso fare il capo dello Stato. Mi sembra improprio chiedere a un bambino che nasce nel nostro paese 18 anni di permanenza ininterrotta per avere la cittadinanza. So di ragazzi che si sono visti negare il diritto alla cittadinanza, anche se sono ragazzi italiani a tutti gli effetti, perché hanno trascorso un’estate con la famiglia nel paese di origine. La nostra normativa è francamente troppo restrittiva.