Di tanto in tanto fra le pieghe di una cronaca per lo più deprimente si annida qualche notizia positiva. Lunedì 7 novembre è stato firmato un accordo fra Confindustria e la Conferenza dei Rettori (in realtà si tratta di un rinnovo di una collaborazione in atto già da parecchi anni), che recita molto pragmaticamente “otto azioni misurabili per l’università, la ricerca e l’innovazione”. L’idea di fondo dell’accordo è che, per parafrasare Kennedy, non ci si può più chiedere che cosa può fare l’università per noi, ma che cosa possiamo fare noi per l’università, tutto sommato per metterla in grado di fare qualcosa per noi.
L’università italiana, hanno concordemente sottolineato sia Marco Mancini, presidente della Crui, che Gianfelice Rocca e Diana Bracco, vicepresidenti di Confindustria rispettivamente per l’education e per la ricerca e sviluppo, non è affatto il disastro che molti lamentano, in quanto produce ottimi ricercatori, che poi magari non riesce ad impiegare e che lavorano nelle più prestigiose istituzioni di ricerca internazionali, ed ha riguadagnato molte posizioni in termini di ricerca e prestigio scientifico. Il problema è che il sistema non riesce a valorizzare operativamente questi elementi, e tende a richiudersi su se stesso senza far crescere l’economia. Rocca ha ricordato che il motto del prestigioso Mit è “mens et manus”, a indicare che l’obiettivo ultimo dell’istruzione superiore è quello di collegare la ricerca teorica e la sua applicabilità, e non di perseguire solo l’una o l’altra.
Molte delle azioni proposte si inseriscono nel processo di Lisbona (far crescere le iscrizioni per le lauree tecnologiche, far crescere l’internazionalizzazione, adottare le buone pratiche diffuse a livello internazionale), altre si riferiscono più specificatamente alla collaborazione fra università e impresa (ricerca e trasferimento tecnologico, occupabilità dei laureati triennali, più stretta collaborazione nei dottorati con l’istituzione dei cosiddetti “dottorati per l’industria”). Due, infine, mi paiono prendere in considerazione dei punti nevralgici della riforma in atto, e sono il monitoraggio del reclutamento e della governance degli atenei, chiamati ad operare per l’autonomia.
In questi mesi si gioca il futuro della docenza: nel giro di dieci anni, andranno in pensione quasi un terzo dei docenti in servizio, e alcuni degli Atenei più “vecchi”, fra cui la stessa Sapienza, perderanno quasi la metà dei propri docenti. Se l’accademia si dimostrasse incapace di adottare criteri meritocratici nel selezionare e promuovere i docenti, il rischio di uno scadimento irreparabile della qualità degli atenei sarebbe innegabile.
Le due istituzioni propongono anche misure concrete per il monitoraggio di queste azioni, che richiederà non poche risorse, oltre alla disponibilità degli atenei: del resto, solo ponendosi obiettivi elevati sarà possibile un salto di qualità generalizzato. Le eccellenze non mancano, è necessario farle crescere ma soprattutto far aumentare la qualità media del sistema tagliando le sacche di inefficienza e valorizzando il merito anche attraverso quei finanziamenti proporzionali ai risultati che la legge di riforma ha introdotto. Per Anvur, l’agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca del cui consiglio direttivo faccio parte, questa è la sfida quotidiana e – devo dire – non gradita a tutti i nostri colleghi, perché smonta alcune rendite di posizione che parevano inattaccabili.
Sapere che la Conferenza dei rettori, che rappresenta il governo del sistema, e la Confindustria, che nelle sue imprese accoglie il “prodotto” dell’istruzione superiore, condividono il giudizio sull’importanza della valutazione non diminuisce la nostra responsabilità, ma certamente ci fa sentire meno soli.