La proposta del ministro Francesco Profumo di rimettere in moto la macchina concorsuale ha riaperto il dibattito in tutto il mondo della scuola. «Voglio riaprire la scuola agli insegnanti giovani» ha detto il ministro. Sul proposito nessuno ha avuto da ridire. Ma è sul «come» che gli interrogativi sono molti. Il nuovo iter formativo disegnato dall’ex ministro Gelmini resterà una pratica senza firma? Come si concilia il nuovo percorso abilitante con una macchina concorsuale che prefigura meccanismi di fatto alternativi? E come indire il medesimo concorso? Con la delega Fioroni del 2008 o con una legge per la quale servono tempi più lunghi? Aprendolo alla platea degli abilitati, o di tutti i laureati? E mettendo in palio quanti posti? Interviene Giuseppe Fioroni, deputato del Pd ed ex ministro dell’Istruzione.



Come ha accolto la proposta di un nuovo concorso lanciata dal ministro Profumo?

L’idea di un nuovo concorso è positiva, perché di per se stessa è segno di speranza e di prospettive per le nuove generazioni. Credo però che il ministro Profumo debba valutare tre cose. La prima: c’è una delega approvata dal Parlamento (la delega Fioroni inserita nella Finanziaria 2008, ndr) a procedere per via regolamentare al nuovo reclutamento. Essa dà il massimo rilievo al tirocinio e al periodo di praticantato. Gelmini ha esercitato quella delega per modulare la parte della formazione; ora occorre attuare al più presto la parte relativa al reclutamento.



Avanti dunque sul Tfa. E chi sta in graduatoria?

L’obiettivo dev’essere quello di trasformare le graduatorie ad esaurimento in graduatorie esaurite. Salvando così i diritti di quelli che ne fanno parte. Concorso, allora, significa che chi vince va a fare il docente, e chi non vince si attrezza per fare altro.

Concorso, dunque. Ma per chi, e come?

È il secondo punto che a mio modo di vedere Profumo dovrebbe valutare. Occorre reperire bene i posti disponibili da mettere a concorso, al netto delle ultime assunzioni di precari fatte e attivandosi perché ai 10mila posti in esubero risultanti da materie di insegnamento che non esistono più sia applicata la mobilità all’interno del pubblico impiego con i relativi processi di riqualificazione. Così da liberare spazi per nuovi ingressi, ma senza alimentare false illusioni.



Riepilogando: primo, fare il nuovo regolamento per le assunzioni, secondo, avere i posti da mettere a concorso.

Esatto. Io ritengo che il concorsone in sé sia una buona idea, ma senza adeguamento si svolgerebbe secondo le vecchie modalità, cosa che non si deve fare. Terzo punto, infine, è che venga firmato il decreto sul Tfa (tirocinio formativo attivo) bloccato da un numero inusitato di mesi. Non possiamo continuare ad essere il Paese che assume decisioni senza dar loro seguito.

Il Tfa è stato misteriosamente bloccato da una serie di circostanze fortuite, non trova?

Guardi, occorre avere il coraggio di firmarlo perché è parte integrante dell’ordinamento e non si può far finta che non sia così. E questo dev’essere fatto al più presto, certamente entro marzo. Chi si oppone fa finta di non sapere che la formazione non è più quella di prima, un bel corso di laurea al quale fanno seguito le supplenze e il piazzamento in graduatoria. Dalla delega in poi, abilitazione e reclutamento sono distinti.

Sui giornali si legge di un fabbisogno stimato in 25-30mila posti l’anno da coprire per il 50 per cento con personale in graduatoria e per il 50 per cento tramite concorso. Lei che ne dice?

Le regole sono chiare, i numeri vanno definiti nel rispetto di tutti i fattori: il nuovo sistema pensionistico e un sistema composito di riferimento, che non sono soltanto i posti liberi del sistema statale ma dell’intero sistema d’istruzione pubblico. Il tutto nel rispetto del mutato contesto, sapendo cioè che siamo in un nuovo sistema, quello che separa abilitazione da reclutamento.

Da quando Profumo ha detto di voler indire un concorso, a 11 anni di distanza dal precedente, si parla di modalità e cifre ma nessuno o quasi mette in questione la scelta. È così anche per lei?

Penso che il meglio sia spesso nemico del bene; e che attivare modalità di assunzione diverse da quella di un reclutamento nazionale rischi di far sì che per cambiare tutto, tutto resti uguale.

No dunque all’ipotesi di un’assunzione diretta da parte di scuole o di reti di scuole, come voleva il progetto Aprea?

Dobbiamo ragionare con ciò che c’è. Ciò che siamo chiamati a fare è ammodernare un sistema di reclutamento nazionale sulla base delle regole che ci siamo dati, tenendo conto della nuova formazione e dell’importanza del nuovo reclutamento per avere una classe docente preparata. Il meglio che molti ipotizzano in varie direzioni è spesso la copertura che impedisce l’innovazione e lascia tutto com’è.

Ha citato la qualità dei docenti: altro problema aperto.

A tutt’oggi non c’è un processo valutativo dei dirigenti scolastici e la scuola è l’unico segmento della pubblica amministrazione che non ha processi valutativi. La valutazione dei ds è il primo requisito per poter valutare l’attività della scuola e intervenire con una correzione. E qui si tocca un altro nodo cruciale. L’Invalsi non può regredire ad interna corporis del ministero, ma configurarsi in modo più netto come autorità terza e indipendente. Se vogliamo valutare anche le politiche scolastiche implicite nella valutazione, un bisticcio tra controllore e controllato diventa una cosa nefasta.

Invece, ricondotto all’interno di una visione strumentale del ministero…

…porterebbe la sgradevole idea di una valutazione ispirata alla sanzione. Valutare significa premiare chi fa bene, ma dare a chi resta indietro gli strumenti per recuperare.

Sono pochissime le scuole che lavorano sui dati Invalsi per migliorare il servizio. Dilemma: pubblicare i dati oppure no?

Il problema non è la pubblicazione dei dati. I numeri sono importanti, ma occorre innanzitutto la «saggezza» necessaria per mettere docenti e scuole in condizione di poter auto-correggere ciò che non va bene. Anche con il supporto di strutture di sostegno all’uso e all’analisi dei dati. È questo l’obiettivo, non la sanzione punitiva.

Ma così salviamo tutti.

No. Diversamente rischieremmo che se il dato crea disdoro, si faccia di tutto perché la volta dopo il dato non crei più disdoro, anche a prezzo della non verità. Sarebbe indurre al dato edulcorato, ottenendo l’effetto opposto a quello che vogliamo perseguire.

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