Permetta, signor Ministro. Un concorso per 12.500 posti cattedra a fronte di 300mila domande di aspiranti docenti (numeri poi corretti: sarebbero 200mila precari più altri 20mila senza fissa dimora)? Sì, bene. Ma quale concorso? L’ultimo concorso per titoli ed esami, finalizzato all’accesso ai ruoli della scuola materna, elementare, secondaria di primo e secondo grado di docenti che, nello stesso tempo, potevano conseguire l’abilitazione all’insegnamento fu bandito nel 1999. Le prove previste erano due, una scritta e una orale: ne risultarono una graduatoria di merito e una graduatoria degli abilitati.
Eravamo in un’altra era rispetto ad oggi, causa i cambiamenti avvenuti nel frattempo che si chiamano Ssis (Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario) inaugurate nell’anno accademico 1999-2000 e poi sospese al decimo ciclo, nel 2008; si chiamano corsi di “scienze della formazione primaria”, quadriennali e abilitanti; si chiamano, soprattutto, Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti (DM n. 249/2010, datato 10 settembre 2010, ma pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 gennaio 2011).
Queste novità e in particolare l’ultima, che disciplina i requisiti e le modalità della formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di primo e secondo grado, nella prospettiva di un nuovo sistema di reclutamento, impediscono – di fatto – di pensare alla ipotizzata fase concorsuale nei termini del concorso gestito centralisticamente, seppure su base regionale, e costruito sull’espletamento di prove tutto sommato casuali ed estemporanee (per quanto rigorose e selettive).
Sicuramente il Regolamento è il prodotto di una linea di pensiero e di un quadro normativo, molto iniziale ed implicito ma reale, che tende a separare la formazione iniziale dal reclutamento (due dimensioni che invece il “vecchio” concorso teneva unite). Infatti, la formazione iniziale degli insegnanti, una volta che il disegno normativo che la contempla fosse attuato pienamente, come è auspicabile, dovrà cominciare ben prima della fase di verifica concorsuale, e cioè, per gli insegnanti di scuola materna e primaria, nel corso di laurea magistrale quinquennale a ciclo unico e, per quelli della scuola secondaria di primo e secondo grado, nel corso di laurea magistrale biennale e nel successivo anno di tirocinio formativo attivo (Tfa). L’abilitazione all’insegnamento da conseguire alla fine del percorso di Tfa si configura in tale modo come un titolo di idoneità all’insegnamento, piuttosto che una passerella verso il posto fisso previa permanenza nelle graduatorie degli abilitati, divenute nel frattempo (altra novità dei ministri Fioroni-Gelmini) graduatorie ad esaurimento (GaE).
Lo stesso Tfa transitorio, che permette di conseguire l’abilitazione mediante il compimento del solo tirocinio formativo attivo ed è pensato per non fare torto ai 129mila non abilitati con almeno 360 giorni di insegnamento e ai 200mila già laureati che fanno supplenze brevi (dati ministeriali), nonché a tutti coloro che si sono laureati in materie attinenti all’insegnamento dopo la chiusura delle Ssis e conservano una vocazione al dialogo educativo, è un intenso corso di preparazione all’esercizio della professione, cui si accede dopo il superamento di tre prove selettive e che si conclude con l’esame di abilitazione. Esso comprende, inoltre, insegnamenti di scienze dell’educazione, insegnamenti di didattiche disciplinari, laboratori e un tirocinio indiretto e diretto di 475 ore svolto presso le istituzioni scolastiche sotto la guida di un tutor.
In fin dei conti quello che qui si intende sostenere è che dopo l’emanazione del DM 249/2010, per quanto ancora lettera morta (ma è comunque una legge dello Stato), tutta la materia del reclutamento, compresi i concorsi per i ruoli, deve essere ripensata e urgentemente riscritta, proprio perché l’accesso ai corsi di laurea quinquennale, ai bienni specialistici per l’insegnamento nelle scuole medie e superiori e ai Tfa transitori è in qualche modo già orientato ad una valutazione della disposizione culturale e attitudinale dei candidati. Ne consegue, per esempio, che chi superasse il Tfa transitorio sarebbe ritenuto già idoneo all’insegnamento.
Perché allora l’annuncio di un altro concorso destinato a coprire il 50 per cento dei posti disponibili per le immissioni in ruolo (l’altro 50 per cento è destinato allo “sgocciolamento” dalle GaE)?
Cui prodest? Indubbiamente un concorso ordinario a cattedra per soli docenti abilitati (da escludere il concorso abilitante per i motivi di cui sopra, che possono essere bypassati solo al prezzo di fare carta straccia del Regolamento del 2010), avrebbe la funzione di sgonfiare ulteriormente le GaE, fonte di precariato: non però di salvare i diritti legittimi dei giovani insegnanti che attendono da anni di potersi abilitare, se si dilazionasse ancora la partenza delle nuove lauree abilitanti e l’avvio del Tfa transitorio.
Insistiamo sul fatto che in queste dinamiche c’è un ordine logico, oltre che politico, che deve essere considerato per un rispetto nei confronti della realtà. In due sensi: anzitutto una prova concorsuale, anche nell’ipotesi di una scadenza biennale della stessa, non dovrebbe precedere l’avvio dei percorsi abilitanti di Tfa, proprio per non contraddire il messaggio rivolto ai giovani che si vorrebbe lanciare con un concorso, al quale i non abilitati non potrebbero partecipare; in secondo luogo, una nuova fase concorsuale non dovrebbe prescindere totalmente dal quadro concettuale che il Regolamento sulla formazione iniziale in qualche modo ha inaugurato.
Separando l’abilitazione dal reclutamento – e pur tradito dal primo decreto attuativo pubblicato, il n. 139/2011 (responsabile delle restrizioni dei numeri dei posti disponibili per il Tfa di cui si è tanto discusso di recente) – il documento in questione apriva ad una concezione del reclutamento intesa in una molteplicità di modi compatibili con il sistema nazionale di istruzione, che potrebbero portare ad una vera liberalizzazione della professione docente, e dunque alla valorizzazione di una figura attualmente ancora schiacciata sul modello impiegatizio.
Su questa strada innovativa dovrebbero essere collocati gli albi regionali degli abilitati (esenti dallo schema delle graduatorie) dai quali le reti di scuole potrebbero attingere per chiamata diretta una parte del personale da immettere in ruolo, dopo avere sperimentato magari per un certo tempo l’indizione di regolari concorsi. Una formula che non sostituirebbe il concorso statale, ma si affiancherebbe ad esso lasciando alla responsabilità del docente di decidere dove meglio spendersi e alla scuola se assumerlo. Se la crisi in cui viviamo è un’opportunità per disegnare il futuro, perché non affrontare questo rischio?