Caro direttore,

Scrivo quasi portato da un moto istintivo, dopo un dialogo avvenuto con una mia collega, madre di famiglia, che mi ha raccontato di una confidenza ricevuta dalla sua bimba più grande.

La bambina frequenta la quinta elementare e ha raccontato alla madre la sua pena per una compagna di classe che le aveva rivelato nei giorni precedenti la sua sofferenza per l’imminente, probabile, separazione dei genitori e il timore di essere allontanata dalla sorella. Che peso ingiustamente caricato sulle spalle dei nostri piccoli! Non si tratta di un episodio isolato, ma dell’ennesima conferma di una inimicizia verso i nostri stessi figli, una vera e propria ostilità che ci porta, se così si può dire, a divorarli, come nei peggiori incubi evocati dalla letteratura più antica. Uno dei maggiori successi editoriali giapponesi, da poco tradotto in Italia (Kanae Minato, Confessione), racconta la vendetta, minuziosamente predisposta, di un’insegnante di scuola media inferiore nei confronti dei due alunni che le hanno ucciso la figlia di quattro anni.



Questo brano di Michael Pye, tratto dal romanzo La camera degli annegati, descrive bene una situazione diffusa: “Il quarto giorno che erano per strada, Gretje ebbe le mestruazioni per la prima volta e sua madre disse che non importava. Sua madre non le spiegava mai le cose e Gretje era costretta a mettere insieme il mondo incollando tutti i fatti o le nozioni in cui incappava”.



I tempi che viviamo mi paiono segnati da una dolorosa contraddizione: il rapporto con i figli è snaturato fino a un vero e proprio rovesciamento di ruoli. Gli adulti vestono, parlano e pensano come ragazzini e i ragazzini sono gettati fin dalla più tenera età nelle realtà proprie del mondo adulto (sesso, danaro, potere, guerra…) anche a seguito di un’esposizione mediatica ininterrotta. La storia di Pin, il bimbo perduto senza gusto tra gli adulti d’una sbandata brigata partigiana, raccontata nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, potrebbe essere letta oggi anche a partire da questa chiave interpretativa.



La predilezione per i piccoli tante volte ripetuta da Cristo e l’ammonimento perentorio a non scandalizzare o allontanare dalla Sua Persona i bambini ci raggiungono in un versante della vicenda umana che si carica d’una responsabilità incalzante e drammatica, che illumina il nostro compito di uomini affinché l’educazione sia l’opera della vita, fino a consumarci. Mi pare di comprendere con un sentimento di gravità  del tutto nuovo l’indirizzo scritto in calce a uno dei primissimi libri di don Luigi Giussani: “Ai grandi che ci sanno parlare, ai piccoli che ci sanno ascoltare” (Gioventù studentesca 1960), come il suo celebre appello: “Mandateci in giro nudi, ma non toglieteci la libertà di educare.

A questa urgenza non risponde certo l’enfasi, anch’essa opprimente, iperprotettiva che difende, giustifica e preserva i figli da tutti gli orchi cattivi che popolano il pianeta (chi ha voglia può leggersi Lo schiaffo, romanzo del greco-australiano Tsiolkas Christos) o l’ostentata finzione di una complicità amicale piuttosto che la riduzione dell’educazione a psicologia o a pratica normativa-sanzionatoria.

Viceversa è necessario che gli adulti facciano gli adulti, mettano in campo la loro consistenza di uomini, che non è né economica né muscolare, ma è in primo luogo la consistenza della loro speranza; quella che non si alimenta della presunzione di aver capito tutto, ma dall’ideale che si segue. Per questo abbiamo la necessità di un posto dove poter seguire uomini che seguono l’Ideale: insomma, abbiamo bisogno che ci sia la Chiesa.

Ho vivo nella memoria un momento del funerale copto per una bimba egiziana, compagna di classe di mia figlia Anna, quando l’autorità più anziana si chinava verso il bimbo più piccolo, che, cantando, lo interrogava, per rispondere, con il canto, alle sue domande. Mi sembra una buona raffigurazione dell’autorità, che non poggia su se stessa, ma è sicura in virtù della tradizione, solida, duratura e viva, che ha ricevuto e fatto propria. Come  ha scritto Gramsci: “Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa. (…) Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente”. 

Verso la fine del romanzo La strada di Cormac McCarthy, in cui si narra del rapporto tra un padre e un figlio in un mondo devastato da una tragedia che ha ridotto tutto in cenere, dove la vita animale è scomparsa e molti uomini sono regrediti verso una forma bestiale di cannibalismo, il figlio chiede al padre, morente, notizia di un bambino incontrato sulla strada e mai più rivisto: “Ma chi lo troverà se si è perso? Chi lo troverà quel bambino?” Questa la risposta del padre: “Lo troverà la bontà. È sempre stato così. E lo sarà ancora”.

V’è da dire che questa risposta viene da un uomo che, sorpreso dalla naturale inclinazione del bimbo verso il bene, non l’ha mortificata, giudicandola una fantasia infantile, ma l’ha assecondata, guidata, fatta crescere, riconoscendo nella natura del figlio l’unica possibilità di salvaguardare l’umanità non solo del fanciullo, ma anche propria, fino al lascito speranzoso delle parole che ho riportato, che si dimostreranno vere e affidabili.

Emerge un’immagine dell’educazione che non consiste nel riempire il bambino delle proprie opinioni, ma che si compie nel servizio alla sua natura, per farla crescere e darle quella sicurezza che il bimbo come il giovane è spinto a cercare nella persona e nella vita dell’adulto.

D’altra parte, mi pare che si possa dire che il movimento amoroso di Dio che si china su di noi facendosi uomo nasca come dall’urgenza di assicurarci che ciò che siamo è destinato a compiersi: in virtù della resurrezione possiamo dire con la stessa convinzione di Paolo e Timoteo: “sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù”. 

L’urgenza che i tempi pongono a noi adulti di essere tali, cioè capaci di generare, educare, far crescere nella vita coloro che mettiamo al mondo mi pare decisiva.

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