Rispondo all’invito rivoltomi da IlSussidiario.net a dir la mia sul tema dell’autorità, preceduto da Salvatore Abruzzese (in due recenti interventi, del 14 – in replica ad Alain Touraine sulla Repubblica del 7 novembre – e, quindi, del 25 novembre scorsi) e da Giovanni Gobber. Mi allaccio alle riflessioni opportunamente problematiche dell’illustre sociologo, in quanto esse fissano e congiungono due principali considerazioni: la lucida constatazione del crollo diffuso, capillare addirittura, del comune senso della legge (non) percepita e (dis)obbedita come solenne e impegnativa, e la (ir)rilevanza della funzione autorevole, non più riconosciuta in chi educa, in chi ha impegnato la propria vocazione responsabilmente. E qui l’accumulo di dati statistici a suffragio va di pari passo con l’avvertenza ordinaria, epidermica, che viene dall’esperienza empirica. Con argomenti e interrogativi efficaci, Abruzzese individua nella “emergenza educativa” (già condivisa ed energicamente denunciata da Benedetto XVI nella Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, del 21 gennaio 2008) la prima delle cause del cedere, se non del venir meno, delle basi stesse su cui si regge la civile convivenza.
Dico subito che l’autorità o è un’esperienza che si fa prima ancora di parlarne oppure è un oggetto di analisi cattedratica (di qualunque cattedra) o, piuttosto, un motivo di polemica o, sbrigativamente, uno spettro che si proietta su un avversario da colpire senz’altro. Se per secoli “autorità” alludeva a un bene, a qualcosa di buono (ancorché occasionalmente maltrattato o rinnegato), dall’età della Riforma e, soprattutto, dell’illuminismo e della Rivoluzione francese fino a oggi essa è, né più né meno, male. In pratica, un mantello ingannevole steso sulla realtà celata, un fardello che grava sulla libera espressione dell’educando, anzi, un impedimento insuperabile e ostile, prepotente, violento.
Che cosa è accaduto? L’idea di autorità, da principio immanente a un vincolo di relazione fiduciaria e di senso condiviso, da principio costruttivo, connettivo e valutativo, si è trasformata in nozione estrinseca, puramente formale e impersonale, come quando, oggi più che mai, s’invocano le “autorità competenti”, ruoli cioè meramente istituzionali che, quantunque ricoperti da persone fisiche, restano astratti, separati dal vivo corpo sociale. È accaduto che l’antica, ma non arcaica, auctoritas venisse equiparata e sovrapposta alla potestas, al potere, da cui invece è ben distinta e sovente lontana (benché talora vi sia stata abusivamente accostata) – come si evince dalla frequenza dell’aggettivo tutto moderno derivato (dal francese), “autoritario”, che fa sempre rima con “reazionario”, cioè contrario al senso evolutivo, progressivo, della Storia. Ma per non esser tacciati di tradizionalismo (ossia di fautori dell’ingessatura della tradizione), preme ricordare che, in un contesto giuridico-politico citato a esempio di democrazia “avanzata”, e in larga misura immune da tentazioni o esperimenti ideologici alla francese, qual è il mondo anglosassone – patria del common law e del liberalismo non radicale, nonché di un senso personale dell’appartenenza alla comunità difficilmente immaginabile da noi –, authority e power sono tutt’altro che sinonimi, anzi.
La prima è una qualità che si misura dalla credibilità di chi la incarna e cui, a tale condizione, volentieri ci si sottomette e che volentieri è accordata; il secondo è prerogativa dello Stato e rappresenta il mero esercizio della forza, talora legittimo e necessario (vedi la “forza pubblica”) talaltra odioso, specie quando vuole dettare regole (p.es. in materia scolastica) che oltrepassano il compito regolativo che a esso compete. Il caso menzionato – comprovato dal consolidato e ragionevole assent (l’ “assenso” newmaniano) della comunità britannica a una legge che sorregge prima che punire –, insegna dunque che il potere si subisce, un’autorità si riconosce; che il potere ha a che vedere con la forza, l’autorità con la verità e la libertà; che il potere c’entra con lo Stato, l’autorità con la comunità; che il potere parla con l’organizzazione centralistica, l’autorità col rischio della persona.
Ma urge ricuperare, riguadagnare, il senso originario delle parole, di certe parole – si vedano, nei paraggi, eredità, tradizione, maestro, verità –, non anzitutto per cullarsi nella finzione di restaurare il tempo andato (questo appunto fu l’errore dei monarchi e imperatori che nel 1814 a Vienna credettero di rimediare al terremoto della grande révolution e ai suoi effetti destabilizzanti con la pura e semplice “restaurazione” delle corone e la riaffermazione del principio di legittimità), bensì per ritrovare un tracciato certo e sensato entro il labirinto che è divenuto il pianeta globalizzato e meccanizzato in cui siamo heideggerianamente “gettati”.
Ci viene in soccorso l’etimologia, piuttosto arte del continuum temporale che scienza delle remote radici verbali. Auctoritas dice la qualità stabile dell’auctor, di chi cioè ha la forza provata di “far crescere” o, meglio, ha la sapienza di interpellare e lasciar maturare, dispiegare, in altri, solitamente più giovani, la loro anima o, se si vuole, la loro libertà. L’auctor – non uso il bel vocabolo italiano, ché qui suonerebbe equivoco e restrittivo – non è tuttavia uno psicologo: egli non tanto sonda o indaga i meandri dell’interiorità, quanto aiuta a costruire una volontà e un giudizio solidi e certi col mostrare i segni che nel mobile e confuso mondo reale fanno scoprire un senso vero, benefico, duraturo e ne fanno gustare il buon sapore. Non è inutile ricordare l’intima ispirazione religiosa del verbo augere, “accrescere”, che l’educatore-auctor esercita: al mistero del seme che, gettato con timore e speranza dall’agricoltore nella terra, miracolosamente dà frutto alla sua stagione fa pendant il segreto cambiamento, la maturazione, l’incremento di coscienza, non programmato né spontaneo bensì libero, di un cuore che risponde a un cuore, come recita la formula biblica – cor ad cor loquitur – fatta incidere sullo stemma cardinalizio dal beato John H. Newman. Scrive mons. Giussani, nel Rischio educativo: “l’autorità è l’espressione della convivenza in cui si origina la mia esistenza. L’autorità in un certo modo è il mio «io» più vero. Spesso invece oggi l’autorità si propone ed è sentita come qualcosa di estraneo, che «si aggiunge» all’individuo. L’autorità resta fuori della coscienza, anche se magari è un limite devotamente accettato” (p.84).
A questo punto, non c’è da attendersi una revisione, ministeriale e perciò forzosa, “d’autorità”, delle condizioni climatiche che favoriscano nella scuola il riconoscimento dell’autorità autentica, così come non si vede chi, a uno stadio istituzionale più alto e più lato, si decida a ripensare i fondamenti filosofici, giuridici, istituzionali della cultura europea, e sia disposto a raccogliere il sollecito invito di Benedetto XVI (che da papa va rinnovando dal 2006 almeno) ad allargare gli angusti confini mentali e normativi in cui un ormai logoro illuminismo ha ridotto la ragione. Nemmeno può bastare il generoso (ma meno diffuso di qualche decennio fa) slancio “missionario” di tanti insegnanti, di rado impegnati in prima persona a trascendere – e non dico “eludere” – la parzialità del proprio insegnamento disciplinare per esercitare quella necessaria funzione interpretativa, quell’uso forte della ragione con cui offrire a un giovane un’ipotesi chiara e leale e per essa introdurlo nella realtà effettiva del mondo e della cultura, entro l’orizzonte del tempo delle generazioni non meno che dello spazio dell’attualità. La stessa capacità rivelativa che Dante, a distanza di tredici secoli, scopre nel “saggio” Virgilio, che al principio della Commedia egli apostrofa così: “tu se’ lo mio maestro e mio autore”. La grata sorpresa della visita di Virgilio, che benignamente viene in soccorso a Dante nel pericolo estremo del perdere Dio e, con Lui, la ragione organo critico del libero arbitrio, dice meglio di tante analisi psico-pedagogiche quanto è necessario un maestro (non un professore!) che sì doverosamente insegni la verità, ma che soprattutto la renda plausibile, ragionevole, rispondente all’esigenza di un discepolo (non conta quanto espressa) di senso e significato dell’esistenza. E lo faccia testimoniando con la propria vita che la verità è più grande di noi, che essa ci giudica e ci libera, e va servita sempre.
Benedetto XVI, nella citata Lettera alla città di Roma, scrive: “L’educazione non può dunque fare a meno di quell’autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero. L’educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch’egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione”.
Posto dunque che l’autorevolezza è funzione della personalità professionale del docente, del suo impegno a cercare e, di più, a documentare la verità e della sollecitudine nei riguardi dei suoi allievi, ci si chiede in che modo sostenere nel tempo tale capacità autorevole. Nella mia esperienza più che ventennale di preside di liceo paritario, due cose, un metodo e una condizione, mi paiono produttive. La prima è l’approfondimento metodico, costante, personale e interdisciplinare, della ragione all’opera nella disciplina insegnata e, nell’identica misura, nel rispondere all’esigenza di senso che sale dagli studenti – esigenza, si badi, che è compito del didatta risvegliare facendo dell’ora di lezione non un mero esercizio di travaso di nozioni da assumere, ma un luogo di confronto fitto di domande e contributi critici.
La seconda, che rappresenta la condizione della precedente, si verifica raramente e come per astrale congiunzione: alludo al fare del corpo docente una comunità professionale d’insegnanti che insegnando educano, una comunità non casuale, ossia non aggregata in forza di graduatorie burocratiche regionali o provinciali, ma radunata intorno a un capo d’istituto che convoca i docenti in nome di un progetto culturale di respiro largo, in cui le persone credano e cui siano dedicate. Questo dà un volto riconoscibile a una scuola, questo fa di un liceo come pure di un istituto tecnico una scuola, altro che il blasone di cui si fregiano o gli allori su cui si adagiano certi rinomati licei centenarii italiani!
La funzione di autorità riposa sull’assenso personale e, insieme, comunitario a un fine condiviso e a un valore provato e riconosciuto efficace. Riprendo quanto ben detto da Abruzzese nel pezzo del 25 novembre: “Il mancato rispetto dell’autorità indica … un mancato riconoscimento proprio di questa componente vocazionale. Tutto si manifesta come se chi svolge questi ruoli [scl. educativi, ndr] fosse percepito come qualcuno che si fosse ritrovato a farlo in modo casuale”. Questo è il punto: il sapere o, meglio, la conoscenza, come da tempo viene ripetendo e argomentando il grande linguista Eddo Rigotti, non è in definitiva il parto della mente isolata del genio; è invece, e in misura eminente, frutto di un’opera comune, è una “co-costruzione”, che si arricchisce dell’apporto di tutti coloro che alla conoscenza di un certo oggetto o alla soluzione di un certo problema dedicano solidalmente le loro energie.
Un anno fa, il Censis, nel suo 44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, scrisse: “nel Paese sono evidenti manifestazioni di fragilità sia personali sia di massa, comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro”. In sostanza, “siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti”. Questo ritratto della nazione terribilmente include un gran numero di giovani, dei quali una volta si diceva che “avevano il mondo in mano”. A ragazzi circondati da miseria di proposte ideali, quasi privi di un “io” cosciente e sicuro, non possiamo più impudicamente offrire illusioni o mezze verità destinate a smottare al primo urto della vita. Occorrono educatori veri, insegnanti credibili (ce ne sono) perché hanno investito in un mestiere, meglio: in una professione, che è l’opposto della riserva in cui troppi si sono ridotti, sotto l’ombrello del posto sicuro, rassegnandosi a non incidere. Ecco, voler essere incidenti, autorevoli, si può: non però per mera selezione aziendale (ma in vista non c’è neppure quella), bensì per elezione, per vocazione a un compito culturale imponente e urgente, che non ci sta davanti: ci sta addosso.
PS. A proposito, come mai in Italia le scuole tecnico-professionali patiscono un’indegna inferiorità nei confronti dei più titolati licei? Non vorrei peccare di provincialismo nell’osservare che in Paesi senza dubbio moderni e avanzati, quali la Germania o l’Inghilterra, alla formazione tecnica è riservata una cura della qualità complessiva pari a quella più propriamente “accademica”. In quei Paesi scuole consimili si chiamano berufliche Schulen o vocational schools: sono anch’esse “professionalizzanti”, preparano sì (e bene) al lavoro manuale e tecnico, ma, anziché venir declassate, là sono accreditate di un sapere a tutti gli effetti, come infatti indicato dagli attributi che le qualificano. Il germanico beruflich, come l’anglo-latino vocational, parlano di “vocazione”, di una chiamata a un compito, non solo di un’attrezzatura funzionale alla macchina produttiva (di cui per altro vogliamo tutti continuare a beneficiare).