“Ci vedremo a Filippi”. È una delle frasi “fatte”, usata per significare che prima o poi in certe situazioni si arriverà alla resa dei conti. “Ci vedremo a Filippi” fu infatti il saluto dello spettro di Cesare, apparso in sogno, la notte prima della battaglia di Filippi, a Bruto, suo assassino, che poi venne ucciso da Ottaviano e Antonio proprio a Filippi.
Con questa frase, spesso, durante le lunghe lezioni di greco e latino, al ginnasio, venivano ammoniti gli studenti della mia generazione. Ricordo l’impressione di sarcasmo e minaccia con cui certi docenti apostrofavano la classe con l’aforisma sopra citato: “Attenti. Al momento opportuno ve la farò pagare”. E il momento opportuno, che immancabilmente si ripeteva, era proprio lo scrutinio trimestrale.
È ancora così oggi, nella scuola dell’autonomia, dei curricoli personalizzati, delle competenze? Gli scrutini sono ancora la piana di Filippi dove si consuma furtivamente ed impunemente la vendetta contro gli studenti più deboli e soli, in un assurdo ed inutile regolamento dei conti? Nella considerazione di molta gente, dentro e fuori la scuola, il voto è molto spesso percepito e vissuto come espressione di una strana forma di “detenzione di potere”. Forse per questo, nota Bezzi, in Italia la valutazione ancora oggi “è proprio una brutta parola, che non piace a nessuno” e non vorremmo neppure nominare, come i personaggi manzoniani nel caso della peste. C’è infatti un alone “censorio” attorno alla valutazione quasi potere indiscutibile, a volte paternalisticamente complice, altre volte tirannicamente soffocante, molto spesso democraticisticamente ambiguo, sempre e comunque fonte di un groviglio di sentimenti “nascosti ed indicibili” che serpeggia nei cuori e nelle menti di insegnanti, genitori e studenti.
Ma non è sempre e dovunque così. Qui vorrei testimoniare che la valutazione scolastica esprime (può, deve esprimere) l’autorità e non il potere beffardo. Infatti è (può, deve essere) esercizio coerente ed amorevole di chi intende far crescere (autorità, deriva da augeo che vuol dire faccio crescere) l’alunno nell’avventura della conoscenza. Per questo anche gli scrutini possono e devono diventare luogo e strumento perché accada l’educare istruendo, come ogni altro momento della giornata scolastica.
Quando la valutazione è espressione di un’autorità? Quando è gesto di un professionista che chiamato ad esprimere un giudizio, all’interno di un’équipe, è disposto, dopo un’adeguata raccolta di dati ed un’accurata loro interpretazione, in base a parametri condivisi, ad esprimerlo in forme e in contenuti protesi a pro-muovere (spingere in avanti), cioè fino al punto che l’alunno, quando anche il voto fosse un tre, ne possa ricavare beneficio.
Che cosa accade invece negli scrutini dove aleggia lo spettro di Filippi? Il voto, che il collega sta proponendo, è espressione di sé come unico ed assoluto arbitro della situazione didattica dell’alunno. È strumento di vendetta, parola del potere che condanna, giudizio che ignora lo scopo fondamentale della valutazione: favorire la crescita e il miglioramento. L’ignoranza e la censura sono esito anche del collega, che non ha nessuna intenzione di vendetta, ma è condizionato da uno spirito fondamentalmente scettico, cinico, indifferente rispetto a quello che è lo scrutinio.
Allora bisogna che qualcuno faccia capire a questi docenti che una valutazione che non promuova, cioè non porti ad un cambiamento o un perfezionamento, è sterile e, molto spesso, dannosa. Che ricordi loro che la valutazione è punto di vista globale, momento di sintesi (del singolo insegnante e del consiglio di classe), elaborata ed espressa per illuminare i passi compiuti e da compiere. È un processo innervato nella relazione educativa e nella programmazione didattica, di cui è variabile dipendente. È un sistema complesso ed aperto di verifiche in ordine al lavoro (contenuti, obiettivi, metodi) effettivamente compiuto. Non è mai la resa dei conti. Esprime il desiderio leale di servire la “promozione”, non di incanalare nella classificazione tra 1 e 10. Permette alla scuola di essere organizzazione che apprende; proposta che si riformula; servizio che si ri-forma, tende ad assumere cioè una forma che realizzi la sua missione: far imparare, fare acquisire e verificare ipotesi di lavoro perché ogni alunno continui l’avventura della conoscenza, sviluppi competenze e possa vivere con intelligenza e libertà i diritti e doveri del cittadino.
Questo qualcuno dovrebbe essere innanzitutto il dirigente, che presiede il consiglio di classe. Sua funzione infatti è che tutto proceda nel rispetto delle persone, secondo gli ordinamenti, in vista del bene personale e comune e si compia secondo la natura della valutazione. Questa, come recita il Regolamento ministeriale, “concorre, con la sua finalità anche formativa e attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze dell’alunno, … al miglioramento dei livelli di conoscenza e al successo formativo”. La promozione, di cui stiamo parlando, perciò, non è atto di benevolenza, ma gesto di professionalità, di conoscenza e di metodo, di cultura e di pratica della valutazione come “espressione dell’autonomia professionale nella sua dimensione sia individuale che collegiale” (vedi art. 1, Reg.).
È responsabilità del singolo docente valutare ogni allievo per le attività svolte in classe secondo quanto definito in fase di programmazione, che tra l’altro dovrebbe essere coordinata, elaborata e vissuta in cordata. È responsabilità di ogni insegnante predisporre le proposte di valutazione di ogni alunno da portare in Consiglio di classe in sede di scrutinio per un’adeguata valutazione collegiale.
Nella scuola dell’autonomia, dei curricoli e delle competenze la valutazione non può che essere plurale e condivisa. Essa matura in un lavoro di équipe, avviene continuamente fino a comprendere lo stesso scrutinio come “oggetto” da valutare.
Di un simile lavoro è imprescindibile promotore il dirigente. Non che egli sia il padreterno della scuola. È semplicemente il leader educativo della comunità educante senza cui la scuola difficilmente viene pervasa da clima di lavoro comune, da uno stile argomentativo ottimale per una comunità di apprendimento, di quello stile caratterizzato dalla ricerca del senso, dalle condivisioni delle ragioni, dalla ragionevolezza delle azioni, dalla consapevolezza dello scopo e dall’uso di un linguaggio comune.
Il dirigente, che si muove per una pratica di valutazione collegiale e trasparente, lavora innanzitutto per un linguaggio comune senza cui, per esempio, è difficile formulare i criteri di valutazione da inserire nel POF e fare adottare a tutti i docenti. Egli smaschera i formalismi e il mito della valutazione oggettiva maturato in un clima di esasperato positivismo in simbiosi con lo scientismo. Denuncia la reattività soggettivistica e capricciosa che emerge in certe sedute di scrutinio, favorisce l’emergere della dinamica comunitaria della valutazione contro cui nei consigli di classe si attuano, a volte, inconsapevolmente strategie di evitamento e di fuga. Una di suddette strategie è la presunta oggettività della valutazione. Occorre sfatarla. In verità nell’espressione di un voto non c’è nulla di incontrovertibile e di assoluto, soprattutto in un contesto scolastico.
Il processo della valutazione infatti con le sue fasi ben distinte (raccolta informazioni, interpretazione dei dati, giudizio e decisione) non è ingegnerizzabile: non può essere delegato alle macchine, neppure ai più sofisticati sistemi informatizzati, e tantomeno a prove striminzite. L’”oggettività” nel giudizio valutativo è al massimo un mix di condivisione dei parametri, di trasparenza della loro applicazione, di un’efficace argomentazione. In quanto tale è sempre in relazione ad un rischio personale responsabilmente assunto, nella consapevolezza che la valutazione scolastica è rapporto, comunicazione amorevole, impegno ad accompagnare nella crescita.
Lo scrutinio non è il gioco della tombola e tantomeno della schedina del totocalcio. Quei numeri sui registri comunicati ed argomentati dai singoli docenti sono occasione, in un clima argomentativo del lavoro, di fare il punto sui singoli alunni. Per fare questo un dirigente deve saper raccogliere le informazioni giuste, saperle analizzare, avere la capacità di lasciar crescere davanti a tutti i presenti la fisionomia dello studente, ascoltando tutti ed invitando ciascuno a riformulare il giudizio. Chiede a ciascuno di porsi non come non giudice ed arbitro, ma testimone di quanto è accaduto ed allenatore di una squadra che gioca le partite in funzione di una meta precisa e condivisa, che comprende gli apprendimenti, ma riguarda in prospettiva le competenze.
In questo modo lo scrutinio non è attivazione del calcolatore collettivo dei decimali e delle medie aritmetiche dei voti, ma gesto che risveglia la consapevolezza di una propria identità e del proprio ruolo, occasione per com-partecipare alla raccolta delle informazioni sugli apprendimenti da valutare, al processo elaborativo e alla formulazione dei giudizi. Lo scrutinio di questo primo quadrimestre può diventare, in altre parole, un momento delicato nella sua drammaticità e fecondo nella prospettiva del far scuola, come mi racconta una dirigente di scuola primaria: “ieri lo scrutinio è stata una discussione molto accesa che ha portato a modificare molti voti e soprattutto a rivedere i criteri con cui erano stati dati. Il clima che all’inizio era un po’ teso subito è diventato molto costruttivo, un momento che poteva essere aridissimo è diventato un momento molto ricco in cui ognuno interveniva e provava soddisfazione delle conquiste fatte nella discussione. A volte un vero e proprio mercanteggiare, ma dove era evidente che avevamo a cuore i bambini: ci siamo chiesti ragione dei criteri e delle scelte fatte in un clima di grande libertà”.