Orazio esperto di politica scolastica? Forse è azzardato affermare che abbia interesse alla formazione dei giovani colui che deve subire nei primi anni di studio le punizioni di un maestro manesco e che poi diviene poeta fra i maggiori della letteratura latina. Eppure nella sua Ars poetica, la lunga epistola ai Pisoni in cui raccoglie quanto di meglio la retorica antica aveva prodotto, Orazio dedica quattro versi alla diversa modalità con cui avveniva ai suoi tempi l’istruzione greca e latina:



Grais ingenium, Grais dedit ore rotundo
Musa loqui, praeter laudem nullius avari.
Romani pueri longis rationibus assem
Discunt in partim centum diducere.

(La Musa ha donato ai Greci, desiderosi soltanto di gloria, di esprimersi con misurata eloquenza; i fanciulli romani imparano con lunghi studi a dividere in cento parti un soldo).



Sono solo quattro versi, ma quale sintesi: non si potrebbe essere più espliciti nell’individuare da una parte la cura della parola che esprime il pensiero dell’uomo, la stima del parlare bene che è segno del pensare bene, dall’altra la meccanicità di una tecnica applicata a cose da poco, la ristrettezza di un orizzonte chiuso nelle cose misurabili, una ragione svilita ad allineare numeri.
E’ ovvio che Orazio non intende quella che in termini moderni si indica di regola come differenza  tra cultura umanistica e cultura scientifica, quanto piuttosto che segnala  una diversa altezza nella concezione dell’educazione.
Senza la pretesa di leggere il testo come una direttiva e una rampogna su una situazione non solo dei tempi passati, è possibile lasciarsi arricchire da una diagnosi che della poesia conserva non solo il ritmo, ma anche l’evocazione allusiva. Essa non corrisponde a nessuno dei modelli con cui la società oggi pensa a se stessa e agli strumenti di cui usa per educare l’intelligenza delle giovani generazioni.



Il contrasto tra intelligenza intuitiva e pedanteria  fornisce invece un punto di vista interessante che percorre dall’interno tutte le discipline e più ancora interferisce sullo scopo della formazione alla quale esse mirano. Tra le tante domande che affiorano, una forse va segnalata: la scuola oggi si programma, senza dichiararlo esplicitamente, in termini soltanto tecnici e funzionali oppure è ancora stimato e previsto uno spazio di gratuito, di investimento su ciò che in apparenza non serve?
Orazio è ben lontano da una concezione e da una pratica della sua opera come frutto della pura ispirazione: in quella stessa epistola ai Pisoni egli afferma che la poesia viene dalla sintesi di ingenium et ars, intendendo quest’ultima come tecnica; proprio in virtù di entrambe egli ha fornito per secoli un modello ai suoi molti imitatori.  Egli fa inoltre parte del circolo di Mecenate, che dipende, anche se non direttamente, dal principe; soldato mediocre, per non dire disertore in una società prevalentemente militare, diviene collaboratore di una  politica culturale ambiziosa e, a giudicare dai risultati, vincente. Tutto ciò non lo priva di capacità critica nell’avvertire la meschinità del sistema di istruzione romano.

Quanti oggi sono interessati alle stesse tematiche potrebbero trovare nei suoi splendidi versi e nella moralità che li sottende buoni spunti di riflessione. Orazio è il cantore del carpe diem, espressione che solo una lettura superficiale fa coincidere con un gaio vitalismo, ma che in realtà è l’emblema di una saggezza disincantata e malinconica, è il maestro che ha insegnato a miscere utile dulci, a intrecciare l’utile al bello nella poesia e nella vita, in uno stile sobrio e raffinato, coerente con l’etica dell’aurea mediocritas, ovvero della misura.
Per questi e per altri motivi Orazio è scrittore inattuale e perciò degno di essere ascoltato da chi, occupandosi di educazione, non bada solo al presente, ma pensa al futuro.