L’immagine è semplice e accattivante: un bambino piccolo, probabilmente infante, che maneggia con disinvoltura un computer. La deduzione proposta non lascia dubbi: la tecnologia starebbe cambiando radicalmente e rapidamente il modo di pensare dei nostri figli. E l’aneddotica fiorisce: “non perché è mio figlio, ma se gli dai in mano un telecomando sa già come accendere il televisore e cambiare canale anche se ancora non parla”. Il messaggio che ci arriva è chiaro: lo sviluppo tecnologico renderebbe i bambini più intelligenti, più rapidi, capaci di azioni e intenzioni inaudite. Dall’altra parte, però, arriva un’ondata in senso opposto: l’uso delle abbreviazioni selvagge nei messaggini sta corrompendo irrimediabilmente l’italiano dei nostri ragazzi; a furia di tvb e lol non si capisce + niente.
Siamo sicuri che le cose stiano così? Certamente il mondo cambia e cambia rapidamente, anzi più rapidamente di quanto ci sia dato di ricordare rispetto alle epoche delle quali abbiamo memoria. Ma ci sono due punti che vale la pena mettere in evidenza prima di affrettarsi a condividere giudizi epocali. Una delle rivoluzioni scientifiche più importanti degli ultimi trent’anni deriva dalla scoperta che la struttura del linguaggio umano ha due caratteristiche fondamentali: primo, è unica rispetto alla struttura dei linguaggio di tutti gli altri esseri viventi – che invece condividono tra loro molti tratti comuni – in quanto, fondamentalmente, è in grado di cogliere e utilizzare consapevolmente meccanismi espressivi che includono la nozione di infinito; secondo, questa unicità non è frutto di convenzioni arbitrarie e culturali, come voleva una certa deriva filosofica di stampo analitico: certamente esistono elementi di arbitrarietà, come l’associazione tra suono e significato, ma le proprietà centrali e distintive delle grammatiche delle lingue umane, in particolare proprio quella legata alla nozione di infinito, dipendono in qualche modo dalla struttura del cervello umano, mostrando tra l’altro che il riduzionismo funzionalista e costruttivista non è affatto adeguato a spiegare i fenomeni di apprendimento spontaneo nei bambini.
Due caratteristiche, ovviamente, strettamente collegate e che indirizzano il problema del mistero della natura unica della nostra specie verso strade mai percorse. Ovunque ci portino queste strade, tuttavia, una cosa è certa: se il linguaggio umano – la struttura del linguaggio umano, intendo – è ancorata nella nostra carne, anzi ne è espressione specifica, allora non bastano certo le innovazioni tecnologiche di dieci, venti, anche cento anni a cambiare questa struttura. Le mutazioni genetiche sono troppo lente per poter dare luogo a cambiamenti in così poco tempo. Dunque, semmai, se di cambiamenti si tratta, sono cambiamenti di abitudine, di circostanza, di contesto, di uso ma non di struttura.
In altri termini, i nostri figli sono sì stimolati da nuove condizioni ma non c’è ragione per pensare che siano cambiate le loro potenzialità, tantomeno i loro cervelli. Questo ovviamente non vuol dire che non sia buona cosa stimolare i bambini con nuovi contesti di apprendimento, inclusi quelli che impiegano nuove tecnologie, ma che non ci si può aspettare niente di più di quanto non potesse aspettarsi dal figlio di un contadino in una cascina: se viene stimolato nel modo giusto, posto di fronte ad attrezzi complicati, anche quel bambino sorprenderà gli adulti come fanno i bambini e le bambine di oggi, con la sola differenza, ma non irrilevante, che spesso la tecnologia lascia soli e fa quindi mancare l’interazione sociale, uno dei propulsori principali dell’intelligenza.
Cosa diversa invece è la valutazione delle possibilità di accesso al sapere rispetto al passato. Se un tempo in salotto si riusciva a trovare a malapena un’enciclopedia decente oggi con in mano un portatile connesso in rete puoi entrare nella Biblioteca del Congresso di Washington e scaricarti l’edizione integrale di un manuale di teoria dei quaternioni. Il problema dell’accesso alla cultura, ovviamente, è cambiato ma c’è ancora, anzi è più subdolo: ora occorre rendersi conto che si deve scegliere e che per scegliere occorre fidarsi di qualcuno che indichi un percorso, non si può immaginare più di farcela da soli. La biblioteca della famiglia di Leopardi, basata sui classici, dove Giacomo poteva esplorare da solo non c’è più: non è scomparsa, è ancora tutta lì ma è diluita in un mare vertiginoso di offerte nel quale Giacomo farebbe esperienza di ben altri infiniti.
Quanto all’imputazione di corruzione dell’italiano recente a carico dei cellulari e delle chat, la partita sembra facile, ma non sarei così d’accordo. Intanto le impressioni, come sempre nella scienza, non bastano: occorrerebbe un metro di valutazione oggettivo del degrado, che ora non c’è (la fonte più autorevole in questo senso rimane senza ombra di dubbio il lavoro svolto dall’Accademia della Crusca); inoltre, chi l’ha detto che le abbreviazioni siano segno di decadenza? Avete mai provato a leggere un epigrafe latina? Ce ne sono alcune che non lasciano intatta nemmeno una parola: è un susseguirsi di abbreviazioni a catena. Ma non credo che sia per questo che è crollato l’impero romano.
C’è un aspetto, tuttavia, nel quale la tecnologia ha certamente cambiato profondamente l’uso del linguaggio, anche se non la sua struttura. Mi spiego con un esempio personale ma che non penso sia isolato. Ho rivisto di recente una puntata della riduzione televisiva di un caso del commissario Maigret: in quella puntata, il grande Gino Cervi si fece portare una birra in studio. Ho calcolato il tempo che ci ha messo a berla: più di cinque minuti. Sorseggiandola, senza dire una parola. Lo stesso tempo nel quale, su certi “documentari” trasmessi oggi, ti bombardano con un montaggio parossistico di immagini rapidissime, slegate, ripetitive, spesso inframmezzate da stacchi pubblicitari. Quella birra di Maigret mi sembrava di averla bevuta anch’io: oggi non son nemmeno sicuro di ricordare la sequenza delle immagini del documentario.
Prima esisteva un periodare lento e copioso come un fiume; oggi, spesso, siamo esposti a innocui rigagnoli incattiviti. Questa sì è una differenza portata dalla tecnologia: la narrazione su testo, il romanzo insomma, difficilmente permetteva questo incedere zoppicante e frammentato e ti responsabilizzava all’ascolto, anche solo per mantenere la trama. Le abbreviazioni che fanno danno, dunque – almeno a mio modesto parere – non sono quelle che bistrattano l’ortografia ma quelle che frammentano l’attenzione. Certo, non ho mai visto una lettera spedita come sms, ma lì il problema non è la grammatica né la tecnologia. Quello che manca in quel caso è quello che mancava anche tremila anni fa: è la grazia di avere un lev shomea, come chiedeva Re Salomone, cioè un cuore in ascolto.