Nel dibattito sui risultati degli apprendimenti degli studenti italiani e sull’impostazione del sistema scolastico del futuro, un elemento spesso trascurato è il ruolo che la conoscenza deve giocare nell’organizzazione complessiva della scuola, anche per riprendere con più decisione una strada virtuosa e favorire esiti decisamente migliori. Nell’attuale assetto culturale, invece, si afferma la necessità di istruire con un po’ di nozioni tradizionali, ma costruendo la scuola attorno a criteri che tolgono, sostanzialmente, valore al momento conoscitivo.



È invalsa, infatti, la convinzione che si debbano insegnare solo saperi (si badi, al plurale), abilità e competenze utili a esercitare un ruolo nel mondo. E così, come afferma Giorgio Chiosso, “al maestro erogatore di sapienza – […] cioè di sapere che dà gusto e senso alle cose – si sostituisce l’insegnante che fornisce le competenze necessarie per completare un ciclo di studi o per impadronirsi di una tecnica utile sul piano professionale o, ancora, un semplice compagno di viaggio che interviene a richiesta dello studente che si autoforma, per esempio, attraverso interminabili navigazioni nel web”.



Va detto, però, che ben diversa è l’impostazione di una scuola se essa è fondata su una tecnica funzionale al saper fare o sulla conoscenza. Per fare qualche esempio: diverso è il ruolo di un insegnante se aiuta i momenti di auto-apprendimento, o se propone dati e metodi delle discipline; diverso è avere notizia di molte cose o conoscere, pensare e stabilire nessi; diversa è una scuola organizzata per ambiti o per classi; diversa è la rilevanza data alle discipline scolastiche, all’impostazione degli spazi di una scuola o dell’ora di lezione, e così via.

La conoscenza conta se la si prende sul serio, dal momento che noi stessi – come ha scritto Rémi Brague – “siamo la nostra conoscenza” e cerchiamo quella verità che “significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri?” (dall’Allocuzione di Benedetto XVI che si sarebbe dovuta pronunciare all’Università degli Studi La Sapienza di Roma).



La conoscenza può assumere rilevanza particolare nella scuola, perché in essa si svolge un momento indispensabile e particolare dell’avventura conoscitiva, secondo la dinamica di introduzione alla realtà totale che le è propria. La conoscenza nasce dall’evidenza delle cose, dall’accorgersi della realtà, come scintilla e possibilità che la ragione si metta alla prova, indagando il mondo. Alle infinite domande che sorgono, la conoscenza chiede risposte, ricerca i perché sull’apparenza e sulla sostanza delle cose, apre agli intellegibili.

La conoscenza non è mai un processo completamente separato dal rapporto con la realtà e con la storia culturale di un popolo. È di questo che si fa carico con passione un insegnante nell’ora di lezione, quando convoca gli allievi all’essere e all’esserci delle cose, insieme alla loro conoscibilità razionale. Egli fa conoscere le cose e rivela nella coscienza di ogni studente il sorprendente accadere di esse, come carico di un significato intellegibile.

Avviene così che alla crisi della conoscenza, nei termini sopra accennati, come fattore non secondario della conclamata crisi scolastica e educativa, risponde già da tempo la presenza di insegnanti e scuole che non attendono, per esistere e fare bene, né riconoscimenti, né favori, né riorganizzazioni e riforme vicine o future. A questi temi è dedicato il Convegno La conoscenza nella scuola, che l’Associazione Culturale Il Rischio Educativo e la Fondazione per la Sussidiarietà organizzano sabato 19 febbraio all’Università Cattolica di Milano.
 

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