Pubblicare o meno gli esiti delle prove Invalsi può sembrare una questione banale. È già stato rilevato come, dalla data di emanazione del regolamento dell’autonomia, le scuole possono e debbono valutare i risultati del servizio svolto, ed è – o dovrebbe – essere evidente che metterli a confronto con quelli di altre scuole a livello nazionale o regionale o locale rappresenta un elemento essenziale di tale analisi.



In questo dovere, tra l’altro, c’è una responsabilità specifica del dirigente scolastico, sia nel senso che deve garantire la correttezza dei comportamenti dei docenti in sede di somministrazione delle prove, sia nel senso che la comparazione – diacronica e sincronica – deve rappresentare una costante di qualunque piano di miglioramento. Non l’unica, ovviamente, poiché la scuola è fatta di processi e di relazioni, che anch’essi vanno tenuti sotto controllo, poiché spesso incidono profondamente sugli esiti.



Eppure persiste una storica diffidenza verso ogni tipo di valutazione esterna degli apprendimenti, quasi che essa implicasse una diminuzione della credibilità professionale dei docenti, anche a costo di ignorare ciò che appare oggi chiarissimo. Poiché, per esempio, alla differenza riscontrata tra zone geografiche del paese nei livelli delle rilevazioni Pisa non corrisponde un’analoga differenza nelle votazioni degli esami di stato, emerge una disparità dei criteri di  giudizio tra i commissari d’esame che alla lunga non può non mettere in discussione lo stesso valore legale del titolo di studio.



Dunque, non solo le valutazioni esterne condotte su tutti gli istituti e non a campione sono utili alle scuole per la loro autovalutazione, ma forniscono strumenti essenziali ai decisori per prendere i necessari provvedimenti in termini di perequazione, ossia di investimenti e di sanzioni. L’Invalsi sotto la presidenza di Piero Cipollone non solo ha fatto passi importantissimi nell’organizzazione tecnica delle prove – che arrivano quest’anno finalmente a toccare gli istituti di istruzione secondaria di secondo grado – ma ha mostrato grande equilibrio nel loro utilizzo, non prestandosi a strumentalizzazioni di alcun genere.

Equilibrio vuol dire non concedere nulla ad una concezione unilaterale della valutazione esterna come panacea dei mali della scuola, ma anche non nascondere la realtà certo non piacevole che le rilevazioni mettono in chiaro: prima fra tutte, l’inaccettabile grado di iniquità di un sistema come il nostro fortemente centralizzato, che dovrebbe garantire il massimo di omogeneità dei risultati.

La pubblicazione degli esiti delle singole scuole metterebbe in crisi questo prudente equilibrio? Certo se lo scopo fosse quello di creare una graduatoria delle istituzioni scolastiche basata unicamente sui risultati grezzi, ignorando quegli elementi di contesto che pure le grandi indagini internazionali ed adesso anche l’Invalsi hanno cominciato a scandagliare, l’operazione sarebbe scorretta ed imbarazzante. È una cosa molto semplice: come dice benissimo Pierantoni, il confronto tra scuole diverse è assai delicato, richiederebbe di depurare i risultati dalle variabili ambientali e soprattutto può essere fatto solo o soprattutto sul valore aggiunto tra livello di entrata e livello di uscita e non sui valori assoluti.

Se non si tiene conto di questi elementi – magari nell’illusione che la “graduatoria” potrebbe spontaneamente spingere le famiglie a scegliere le migliori abbandonando le altre e per questa via migliorare il sistema – si otterrebbe il risultato opposto di approfondire la frattura sociale da cui derivano le differenze dei risultati “grezzi”.

Dunque, è utile e necessario che la pubblicazione degli esiti delle singole scuole sia accompagnata da quella relativa ai dati di contesto relativi ai condizionamenti socio-ambientali di ciascuna e –  quando sarà possibile – del miglioramento rispetto alle rilevazioni precedenti. Queste, del resto, sono le indicazioni realmente utili per orientare le decisioni dell’Amministrazione e della stessa utenza nel quadro di una strategia tesa a garantire a tutti i cittadini i livelli indispensabili di prestazione. Altrimenti si constata solo l’ovvio: le scuole “meglio frequentate” ottengono gli esiti migliori, secondo la tradizionale e mai scalfita gerarchia: licei, tecnici, professionali, agenzie di FP.

Fare un’operazione di questo genere non è semplice. Occorrono risorse (e davvero l’Invalsi ha fatto miracoli con ciò di cui dispone) e ci sarà sempre qualcuno che chiederà di più. Ma – poiché l’ottimo è nemico del bene – cominciamo a fare ciò che è possibile oggi con i dati disponibili, intanto che si  raffinano gli strumenti di indagine.
 

Anche le singole scuole, nel quadro dei processi di autovalutazione, possono e debbono operare “dal basso” con quella struttura di rete, comprendente statali e paritarie, cui accennava il preside Pierantoni e che mi sembra comunque indispensabile come interfaccia della valutazione esterna e come spinta verso le condizioni (carriera dei docenti, ma anche concezione del profilo professionale del dirigente scolastico, non assimilabile tout court con quello amministrativo) che fanno vivere l’autonomia.

Se invece qualcuno pensasse di utilizzare la pubblicazione dei dati come chiave di volta per una campagna a favore di una “meritocrazia” fondata sugli esiti grezzi, allora non renderebbe un servizio né al sistema, né agli operatori, né, in ultima analisi,  alle famiglie, che finirebbero per allinearsi (quelle che lo possono) per gruppi omogenei in base alla provenienza sociale, economica e culturale.