Caro direttore,

leggo su ilsussidiario.net di ieri 21 febbraio 2011 l’articolo di Daniela Graffigna sull’incontro di presentazione di un libro di Davide Rondoni a proposito dell’insegnamento della letteratura a scuola.

Premetto che la scuola che ho fatto io, quella sì, ci faceva studiare storia della letteratura a prescindere dalla conoscenza dei testi e che la scuola in cui ho insegnato, anche per merito dei famigerati strutturalisti, ha suggerito la centralità della lettura del testo nella didattica dell’italiano e anche del latino, senza per altro imporre per essa alcun metodo (né strutturalista, né psicanalitico, né filologico). Dunque mi pare che il campo resti sgombro per l’intelligenza dell’insegnante, per la sua preparazione, per i suoi gusti, anche.



Diffiderei dall’uso magico di certe parole, come ad esempio la parola avvenimento. Di avvenimenti nella vita ce ne sono davvero pochi, per fortuna. Se ce ne fossero tanti, non potremmo portarne il peso. Perciò, sia la lettura obbligata dell’attuale ordinamento, sia la lettura facoltativa proposta da Rondoni, non mettono per fortuna al riparo dalla noia connessa ad ogni lavoro umano che voglia avere una dignità. Chiunque abbia fatto una tesi di laurea, che normalmente è l’impegno più lungo dell’iter universitario, sa quanta parte di noia appunto ci sia e sia necessario attraversare affinché a un certo punto avvenga qualcosa di simile a un’idea originale, a un’ipotesi convincente, a un sobbalzo del cuore che indichi come proseguire. Credo di dire cose molto banali, ma per questo anche poco dette. Perciò, lo studio nel senso latino dell’applicazione da cui nasce l’amore, è condizione necessaria nella scuola. O vogliamo continuare a perseguire il sogno di piccoli esteti, falsamente amanti e realisticamente emotivi?



Per favore, ritorniamo coi piedi per terra. Non per la difesa dello status quo, né per quella dell’italiano, ma per quella educazione di cui tanto si parla senza riempirla di contenuti, per quella umanità che vorremmo per noi e per i più giovani capace di tenacia, di determinazione, di sacrificio nell’affrontare le difficoltà costituite anche solo da una ostica versione di latino, lieve allenamento alle ben altre avversità della vita.

Non esperti, ma amanti, dice Rondoni. Ma l’amore non è solo innamoramento, è anche vita comune, con tutta la minuziosa gamma di azioni, silenzi, ansie, rabbie, pazienze che essa comporta.
“L’amore delle lettere e il desiderio di Dio”: è il titolo di un famoso saggio, di recente ricordato anche su ilsussidiario.net; parla della cultura umanistica nella vita monastica. Quanto monaci hanno ricopiato per secoli il De Amicitia di Cicerone affinché poi nel XII secolo la scuola cistercense ne traesse la dottrina dell’amicizia spirituale, origine lontana ma reale della poesia romanza? E i grandi maestri di quella dottrina non si saranno forse sforzati di imparare la retorica di Cicerone prima di scrivere come hanno scritto? Non avranno dovuto leggersi Ovidio prima di rifiutarlo come un cattivo maestro? Quanti avvenimenti avranno vissuto in questo lavoro incessante nei loro scriptoria bui e freddi?



Per favore, abbiamo l’umiltà di imparare dai grandi, il pudore di non usare parole vere per comunicare una emotività impura perché momentanea, non sedimentata, sempre alla ricerca di conferme, sempre smaniosa di iterazioni. Mi sembra che la parola avvenimento sia una di queste. E si sciupa così. Con che cosa la sostituiremo, quando ci sarà venuta a noia del tutto?
Grazie per avermi ascoltato.

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