Ho un amico, docente di ingegneria meccanica al Politecnico e di formazione scientifica, che divora libri di alta letteratura e saggi di filosofia. Ho un altro amico, studi umanistici, che va di libreria in libreria a cercare come un rabdomante testi che illustrino teorie ed analisi del modus vivendi passato e attuale. Ho un figlio che ha poca dimestichezza con i libri in cartaceo ma che legge molto da internet come fonte di informazioni e di conoscenze che gli facciano amare di più il suo lavoro ma anche che lo facciano andare oltre la pura informazione funzionale hic et nunc. Per quanto riguarda me, devo confessare di essere un’onnivora della pagina scritta. Golosa e senza freni, sostenuta dalla speranza di saper distinguere il grano dal loglio.



Eppure è giudizio diffuso che gli italiani leggono poco e che questo fenomeno sia da imputare in buona parte alla scuola. Chi ha a che fare con figli, nipotini, alunni, sperimenta la grande curiosità e l’interesse che un bambino già a tre anni manifesta per il libro, da cui si aspetta una “storia”. Una storia che deve essere ripetuta compulsivamente identica, senza cambiamenti di parole. Dopo aver ascoltato le parole lette dall’adulto “…e diventarono amici” Matteo, tre anni, ha esclamato estasiato “Amici!! Sono amici!!!” (i punti esclamativi sostituiscono malamente il tono di stupore e di gioia che ha accompagnato le parole). Il bimbetto, che ha iniziato a prendere familiarità con l’esperienza dell’amicizia (del rapporto con altri bimbi), ha potuto dare un senso alla parola amici. Non ne chiede il significato, glielo attribuisce a partire dal suo vissuto.



Questo esempio dal vero per dire che la questione del piacere della lettura, che va scemando mano a mano che si innalza l’età e la scolarizzazione, sta proprio nella distinzione tra significato e senso. Il significato è ciò che viene trasmesso e universalmente dalle parole che appartengono ad un codice linguistico condiviso. Il senso è il significato fatto proprio e commisurato con la propria persona che ha esperienze cognitive e di vita proprie. Il senso nasce da un paragone tra un testo e la propria esperienza. È l’io che si mette in relazione. Già. Perché l’atto del leggere è un incontro, a volte appagante, confermante, a volte, anche, faticoso ed estraneo a sé.



Nella scuola si privilegia l’educazione alla comprensione del significato, e ciò di per sé non è male, è solo un po’ limitante. Molta analisi testuale ha rischiato di uccidere l’avventura di un incontro. Leggere è paragonare il proprio io con la realtà, la realtà tutta. Si dimentica a volte che nella scuola non si legge solo narrativa. Si legge per godere delle parole che narrano e disegnano storie, personaggi, eventi, ma si legge anche per “conoscere” fenomeni, leggi della natura (si pensi ai testi scientifici).

 

In ogni caso la lettura va vista come un incontro. Nella narrativa si fa un incontro con esperienze, con caratteri umani, con delle vite. Nei testi di studio si incontra la realtà nelle sue manifestazioni fisiche e temporali. Nei saggi e testi argomentativi ci si paragona con teorie e pensiero. Ciò che ammazza il piacere (direi quasi il bisogno) della lettura è la sua riduzione ad abilità puramente scolastica, finalizzando l’atto del leggere ad un’utilità altra. Devo capire un testo per poterne fare il riassunto, per poter rispondere alle domande dell’apparato didattico, per poter sostenere un’interrogazione o una verifica. È vero, c’è anche questo scopo secondario e funzionale. Ma leggere deve avere valore per sé, come atto stesso del leggere. Perché ciò non si riduca a pura e incontrollata emozionalità o assunzione incondizionata di narrazione e conoscenze occorre educare la persona alla conoscenza di sé e all’assunzione di criteri e di pensiero. Qui sta il compito delicato e irrinunciabile della scuola, che può andare in parallelo con l’offerta di tecniche strumentali ed efficaci per la padronanza dell’abilità di lettura.

 

Senza  bamboleggiamenti o precocismi che blocchino o sconcertino i lettori. Un testo può suscitare curiosità, emozioni, attrattiva o repulsione a seconda dell’età che si abita, delle stagioni della vita, dei luoghi e delle persone che hanno proposto e/o consigliato il testo stesso. Credo che tutti abbiano fatto l’esperienza di rileggere a distanza di anni un romanzo, un racconto, e rigiudicarlo, a seconda della vita esperita, banale o suscitatore di riflessioni e di paragoni con sé. E ciò non dipende solo dalle caratteristiche linguistiche del testo, dai suoi contenuti, dalle difficoltà sintattiche e lessicali. Alcuni libri per bambini sono scritti a partire da un pensiero e da una sensibilità adulti.

In quest’ottica la scuola può cancellare il piacere della lettura o può suscitarlo e sostenerlo. Annulla il piacere di leggere quando rende tale abilità uno strumento utile solo per le attività scolastiche. Promuove il piacere della lettura sostenendo, valorizzando e facendo crescere l’io dello studente che pone un sé consapevole nel paragone con la pagina scritta. Mantenendo aperta la curiosità sull’altro da sé (altro umano e culturale) che suscita domande alla realtà e a sé. Strutturando le occasioni di lettura come “incontri” di umanità e di pensiero.

 

È un lungo cammino che ciascuno intraprende e prosegue con le scarpe da trekking ai piedi, passo dopo passo, concedendosi delle soste quando si incontra una difficoltà o un particolare che attrae, o accelerando l’andatura se si intravvede in lontananza una meta intermedia che si anela conoscere. Se sono, leggo, se leggo imparo a conoscermi meglio. A scuola e per tutta la vita.

Amici libri!

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