Un sociologo contemporaneo, Norbert Elias, ha osservato che esistono tre modi per conoscere la realtà, tre forme principali di apprendimento.

1. Si può conoscere innanzitutto per esperienza diretta, cioè quando siamo testimoni di un fenomeno o di un evento e la nostra intelligenza è interrogata da ciò che accade. Quindi conosciamo un fenomeno o un evento vedendolo e «vivendolo» direttamente, partecipandovi direttamente. La conoscenza immediata nel mondo della vita quotidiana, ma anche la conoscenza scientifica – attraverso  l’osservazione sperimentale o la ricerca sul campo – costituiscono modalità diverse di questa prima forma di conoscenza e di apprendimento.



2. Si può anche conoscere e apprendere attraverso l’osservazione e l’imitazione del comportamento di un altro. Ciò accade, ad esempio, nel caso della conoscenza pratica: per tanto tempo l’apprendimento di un mestiere è avvenuto attraverso questa modalità e ciò vale per molti aspetti ancora oggi. Si può imparare vedendo un altro in azione. Anche l’apprendimento di valori – e su questo tornerò – avviene originariamente attraverso l’osservazione e l’imitazione di un altro.



3. Si può infine conoscere e apprendere attraverso simboli, cioè attraverso un racconto, una descrizione, una narrazione della realtà da parte di un altro che si serve di una qualche forma di linguaggio: il linguaggio verbale o scritto, il linguaggio matematico o delle immagini visive. Gran parte della nostra conoscenza si forma oggi in questo modo: attraverso la testimonianza o il racconto, cioè attraverso la mediazione di un altro.

Da questa premessa emerge che gran parte della nostra conoscenza del mondo, ma anche del nostro io, coinvolge la presenza di un’altra persona, di un altro soggetto; passa attraverso la presenza e l’azione di un altro che io guardo, ascolto, da cui imparo.



Se, necessariamente, la conoscenza implica sempre la nostra esperienza e il nostro giudizio, al tempo stesso questa esperienza e questo giudizio sono sollecitati, stimolati, provocati dalla presenza, dalle parole, dai gesti, dai comportamenti di altri, soprattutto coloro che lo psicologo sociale George Herbert Mead definiva altri importanti o altri significativi, cioè coloro che sono figure rilevanti nella nostra vita, con cui sempre ci confrontiamo interiormente anche in loro assenza.

Anche nella conoscenza per esperienza diretta noi non ci avviciniamo ai fenomeni come se fossimo delle tabulae rasae, ma ci avviciniamo sempre con una pre-comprensione, un’ipotesi, un’idea di quel fenomeno che ricaviamo dalla nostra precedente esperienza del mondo che gli incontri con gli altri, soprattutto gli altri importanti, hanno plasmato.

Se dunque la nostra conoscenza della realtà coinvolge sempre in modo diretto o indiretto la presenza di un altro, allora diventa assolutamente centrale il tema della credibilità e della fiducia. La credibilità del comunicatore, di colui che parla o agisce, e la fiducia del destinatario, di colui che osserva, ascolta e impara, sono la chiave di volta di ogni relazione conoscitiva, comunicativa ed educativa.

Questa intervento si concentrerà dunque sul tema della credibilità in generale e sulla credibilità (e la responsabilità) dell’insegnante in particolare, perché l’essenza del lavoro dell’insegnante è di essere tramite, veicolo e sostegno della conoscenza e dell’esperienza dei suoi allievi.

1. La credibilità è una relazione

 

Che cosa è la credibilità? Chi è credibile? A queste domande molti risponderebbero immediatamente: «è credibile chi è onesto, coerente, sincero, affidabile». È la risposta che ha dato anche Aristotele, il quale nella Retorica osservava che crediamo più facilmente alle persone oneste, soprattutto nelle questioni che non comportano certezza, ma opinabilità. La credibilità è considerata dunque una qualità personale, una caratteristica morale della persona.

Se riflettiamo meglio, tuttavia, la credibilità non è solo una caratteristica personale: è qualcosa che viene riconosciuto dagli altri. Anche se evidentemente non può prescindere dalle qualità personali – che ne costituiscono il fondamento – la credibilità è una relazione, un rapporto. Noi diciamo infatti: «io ti riconosco credibile, io ti credo, io ti do la mia fiducia». Spesso chi è credibile per qualcuno non lo è per altri, non nello stesso modo, nella stessa misura e per le stesse ragioni. La credibilità è sempre qualcosa che «avviene» nella relazione, qualcosa che si mette in gioco nella relazione. È sempre una sfida e una scommessa. Certo la credibilità si basa sulla reputazione acquisita, cioè la credibilità provata, costruita, consolidata nel tempo attraverso molte conferme, ma essa deve essere ricostruita e riconquistata ogni volta. È ciò che si prova ogni volta che si entra in una nuova classe, si incontrano dei nuovi ragazzi. La buona o cattiva fama che ci precede (speriamo buona) non è sufficiente, perché la partita della nostra credibilità e della loro fiducia si gioca in quel momento, è un rapporto che inizia a costruirsi in quel momento. 

C’è anche un altro aspetto che va messo in luce. In ogni relazione comunicativa, le persone si attribuiscono reciprocamente una maggiore o minore credibilità. Tuttavia attribuire all’altro una qualche credibilità costituisce, come ha osservato il filosofo Hans Georg Gadamer, l’accordo portante su cui si regge ogni relazione comunicativa e, in fin dei conti, ogni relazione umana. Noi anticipiamo sempre all’altro una qualche forma di credibilità, di affidabilità. Anche l’incomprensione, il fraintendimento (non voluto) o l’inganno (voluto) sono necessariamente preceduti da una anticipazione di credibilità, di fiducia, cioè dal presupposto della sensatezza e della verità di ciò che l’altro afferma. In ogni rapporto con un altro c’è dunque una apertura di credito. Altrimenti non ci rivolgeremmo nemmeno all’altro, non lo guarderemmo nemmeno, non inizieremmo neanche a parlare con lui.

 

A questo punto occorre fare un passo successivo e chiedersi: in base a che cosa riconosciamo qualcuno come credibile? Quali sono le «radici» o le «cause» della credibilità, le ragioni per uno può dire ad un altro: «sì io ti riconosco credibile, ti ascolto, ti do la mia fiducia, ti seguo»? Esistono essenzialmente tre grandi radici o tre grandi cause della credibilità.

La prima è costituita dalla conoscenza e dalla competenza. È la credibilità di cui gode «colui che sa», che dispone di un sapere affidabile, che ha solide fondamenta. Le due forme principali di questa prima radice della credibilità sono la credibilità del testimone in buona fede e la credibilità dell’esperto. Nella società moderna la figura per eccellenza di esperto è quella dello scienziato, cioè di colui che vanta e «produce» una conoscenza metodologicamente fondata, ma la credibilità basata sulla conoscenza/competenza è anche quella dell’insegnante come esperto di una determinata disciplina, del medico in quanto capace di curare secondo i dettami della scienza medica, o del giornalista quando svolge il suo lavoro di testimone diretto degli eventi secondo le regole dell’accuratezza, della completezza, della verificabilità dell’informazione. In sintesi è la credibilità della persona che «sa quel che dice» e assume la responsabilità di ciò che dice.

La seconda radice della credibilità è la coerenza tra i valori che si affermano e la concreta condotta di vita. Essa dunque non riguarda in generale le concezioni di ciò che è buono, giusto, stimabile, desiderabile, ma come tali concezioni diventano principio e criterio del comportamento. In questo senso io riterrò più credibili quelle persone che incarnano, cioè mi mostrano in maniera evidente nel loro modo di essere e di agire i valori che professano, anche quando ciò implica dei «costi» in termini di successo o approvazione sociale.

La terza radice della credibilità è costituita dall’attaccamento e dall’affettività. È quella forma di credibilità per cui diciamo: «ti credo, mi fido di te perché ti voglio bene (e penso che anche tu mi voglia bene)». È la credibilità che si basa sulla percezione di un legame positivo e che è fonte di benessere, come accade, ad esempio, nel rapporto tra la madre e il figlio, soprattutto nei primi anni di vita. Senza dubbio, la madre dispone di conoscenze e competenze che il bambino riconosce e segue (la prima radice); rappresenta e incarna quei valori, cioè quei modi di essere e di agire che spingono il bambino all’imitazione (la seconda radice), ma è essenzialmente l’attaccamento, l’affetto profondo del bambino per la madre che lo spinge a credere in lei, ad avere fiducia in lei. A questa stessa radice fa riferimento anche il rapporto di amicizia e, in generale, il fatto che tendiamo a ritenere più credibile chi ci è «simpatico», cioè colui verso il quale avvertiamo una immediata attrazione o corrispondenza, rispetto a chi ci è antipatico e verso il quale nutriamo sentimenti negativi.

 

A questo punto è possibile affrontare la questione della credibilità dell’insegnante.

L’insegnante è al centro di un sistema di relazioni con una pluralità di soggetti che esprimono diverse aspettative nei suoi confronti, a volte anche contrastanti: le aspettative dei ragazzi, dei genitori, dei colleghi, dei dirigenti scolastici, del Ministero, dei mass media, della società in generale. Ognuno di questi soggetti avanza diverse aspettative di credibilità nei confronti dell’insegnante. Nessuna di queste aspettative va trascurata, tuttavia, pur non dimenticando gli altri interlocutori, questa riflessione si concentrerà sulla relazione tra l’insegnante e i ragazzi poiché essi sono i destinatari del rapporto educativo, i principali interlocutori del lavoro quotidiano dell’insegnante. Perché la scuola esiste per loro. 

Cercherò dunque di esaminare le tre radici della credibilità dell’insegnante nel rapporto con gli studenti, nell’interazione quotidiana, nel lavoro quotidiano in classe.

2. La competenza disciplinare e didattica

 

La prima radice della credibilità, come si è detto, è la conoscenza e la competenza. Qual è dunque la competenza dell’insegnante, di quali fattori e dimensioni è costituita? Quattro dimensioni emergono come particolarmente rilevanti.

1. Innanzitutto, l’insegnante è un esperto di una disciplina o un insieme di discipline e il suo ruolo è trasmettere la conoscenza dei contenuti di queste discipline. Quindi il primo aspetto è una competenza disciplinare. Tale competenza si associa immediatamente all’idea di un bravo insegnante. Essa può essere più o meno specialistica a seconda del grado scolastico, del tipo di scuola e di disciplina insegnata e non viene riferita solo alla dimensione teorica, ma include anche abilità e capacità pratiche, ad esempio in discipline tecnico-pratiche e di laboratorio.

2. Il secondo aspetto riguarda la capacità di insegnare, cioè quell’insieme di competenze didattiche e metodologiche che permettono di trasmettere nel modo più efficace e coinvolgente questi contenuti disciplinari e culturali. Talvolta sentiamo dire: «certo, è competente, sa bene la sua materia, ma non sa insegnare». Quindi insegnare non è semplicemente conoscere bene i contenuti, ma saperli trasmettere in modo efficace, interessante, affascinante. E quindi occorre ingegnarsi (e impegnarsi) per immaginare le modalità migliori per insegnare in modo didatticamente efficace, anche attraverso una formazione continua.

3. La terza dimensione della competenza è la competenza comunicativa. Aspetto essenziale della competenza comunicativa è la capacità di identificare le modalità comunicative più efficaci, cioè che meglio rispondono da un lato allo scopo di chi comunica, dall’altro alla concreta situazione d’interazione in cui egli agisce, cioè a quegli studenti in quel contesto determinato, in quella scuola, in quella città. Gli studenti sono i destinatari designati dell’insegnante. La sua comunicazione deve quindi essere costruita, concepita per quegli studenti, tenendo conto della loro situazione, non riferita ad un modello ideale/astratto di studente che esiste solo nella sua rappresentazione.

4. La quarta dimensione della competenza è quella che, con le parole di un altro sociologo contemporaneo, Erving Goffman, possiamo definire competenza o abilità «drammaturgica». Una caratteristica essenziale del lavoro dell’insegnante è di svolgersi costantemente su una ribalta, davanti a un pubblico. Essere esposti costantemente allo sguardo di altri – anche quando si tratti di bambini o adolescenti – uno sguardo che contiene comunque un’aspettativa e un giudizio implica inevitabilmente una fatica e richiede una attenzione, una «cura» e una «auto-disciplina espressiva». Questa fatica ha anche un’altra componente fondamentale: quella di reggere e sorreggere la fatica altrui, del bambino e soprattutto dell’adolescente che sta affrontando il processo di costruzione di una propria identità.

Per questo è essenziale per l’insegnante saper «tenere la scena». Non tutti hanno le stesse qualità e capacità: c’è chi è più estroverso, più sicuro di sé, più simpatico, ma questo è comunque un problema con cui tutti devono fare i conti. L’abilità drammaturgica dell’insegnante si specifica in due aspetti: il «dinamismo» e l’ «immediatezza». Il dinamismo è essenzialmente l’energia e la partecipazione emotiva che l’insegnante investe nella sua rappresentazione, la sua capacità di controllare e animare l’ambiente e il clima relazionale della classe; l’immediatezza è la disponibilità ad «accorciare le distanze» con gli studenti. Le ricerche sulla credibilità (dell’insegnante) percepita (dagli studenti) sottolineano tutte l’importanza che questi aspetti assumono ai fini della motivazione degli studenti e dei processi di attenzione, comprensione e memorizzazione.

 

Tutte queste conoscenze e competenze nelle quali si esprime la «capacità di insegnare» non sono però semplicemente al servizio della acquisizione di contenuti disciplinari intesi come un insieme di informazioni, ma dello sviluppo della capacità di pensare e giudicare. Lo scopo è l’educazione all’uso della ragione. La ragione è la facoltà di giudizio, la capacità di giudizio. Educare significa far emergere, coltivare nei ragazzi la capacità di giudizio.

1. Giudicare significa cercare, scoprire, far emergere: a) i nessi, le relazioni, i collegamenti tra le cose, i fenomeni, gli eventi; b)  i significati dell’agire umano e delle relazioni umane e il rapporto tra i significati e i segni, cioè le forme sensibili, percepibili che li esprimono; c) i rapporti di priorità, le gerarchie di rilevanza, le distinzioni/relazioni tra ciò che è primario e secondario, essenziale e contingente, ciò che vale di più o di meno ai fini della vita umana dal punto di vista ontologico ed etico.

La facoltà/capacità di giudicare riguarda sia i fenomeni fisici e naturali, sia i fenomeni umani e sociali, che richiedono ognuno un metodo adeguato di conoscenza. Se considero ad esempio l’uomo e le relazioni umane dovrò trovare un metodo adeguato all’oggetto che intendo conoscere. Così il senso dell’azione umana e sociale può essere adeguatamente compreso solo riferendosi all’intenzionalità, alle motivazioni e alle esigenze di colui che agisce e non può essere semplicemente riferito a cause e condizionamenti esterni o a meccanismi e pulsioni interne (che pure esistono), perché ciò non sarebbe adeguato all’oggetto e allo scopo conoscitivo che ci si prefigge (cioè produrrebbe una spiegazione riduzionistica).

 

2. La seconda dimensione della ragione è la capacità di cogliere il nesso, il rapporto tra l’attività della conoscenza e la vita di colui che conosce. Ciò si esprime nella domanda: quel che «accade» nel mondo che cosa implica per me in termini di conoscenza, decisione e azione sulla realtà?

Per l’insegnante si tratta di cogliere e mostrare il rapporto tra un particolare sapere disciplinare e la realtà o, in altri termini, la sua utilità. Spesso si sente dire che le discipline devono essere divertenti per facilitare l’apprendimento. Che siamo divertenti è un aspetto secondario: l’elemento essenziale è che siano interessanti. Ma cosa interessa? Interessa ciò di cui si coglie il nesso con l’esperienza, che permette di capire di più la propria vita e la propria esperienza.

La mancanza di intelligenza coincide in questo caso con il rischio dell’astrattezza, nel senso letterale del termine, dell’essere fuori, non addentro alla realtà. Gli studenti dicono spesso: «ma questo a cosa mi serve?», «perché devo studiare questa cosa?», che è come dire «non capisco il nesso». Occorre allora interrogarsi su come rendere interessante la propria disciplina, cioè connessa alla realtà, che si tratti di matematica, di fisica, di biologia, di letteratura, di filosofia o di storia dell’arte, di ragioneria o estimo.

 

3.Educare la ragione significa anche cogliere e mostrare la connessione tra i saperi, le forme di conoscenza, cioè tra le discipline (è il famoso concetto di interdisciplinarità). Perché?

Innanzitutto ogni fenomeno, ogni evento, ogni aspetto della realtà che osserviamo ha una articolazione interna, una complessità, che nessuna disciplina esaurisce o può comprendere interamente. Quindi nessuna disciplina basta a se stessa, ma ha bisogno di essere integrata dalle altre, cioè di altre prospettive che consentono di comprendere la realtà di cui si occupa. Ancora una volta, ciò diventa evidente in massimo grado quando studiamo l’agire e le relazioni umane. 

In secondo luogo uno sguardo interdisciplinare risponde alle esigenze della ragione perché tutti i saperi e le discipline sono in un certo modo «scienze dell’uomo», cioè sono finalizzate a consentire una conoscenza e un controllo dell’ambiente in cui l’uomo vive e a dirigere l’azione umana. In una parola servono all’uomo a capire la realtà (a cominciare dalla propria «realtà interna») e ad agire con intelligenza sulla realtà.

Infine, come ci hanno mostrato la psicologia e le scienze della mente,  l’interdisciplinarità si giustifica con il fatto che l’intelligenza è una facoltà che include molte capacità, attitudini e competenze non riducibili semplicemente alle forme logiche e verbali. Pensiamo ad esempio alla teoria di Sternberg che distingue tra un’intelligenza più astratta (o «analitica»), un’intelligenza pratica (o applicata, fondamentale nella vita quotidiana) e una forma di intelligenza creativa (che consiste nella capacità di individuare strade nuove e soluzioni originali). O, più di recente, alla teoria delle «intelligenze multiple» di Gardner che individua una intelligenza linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, corporeo-cinestetica, intrapersonale e interpersonale. Sono, come si esprime Gardner, diversi frames of mind, forme di organizzazione della mente e di conoscenza del mondo, ma anche diverse forme di espressività e di «eccellenza» personale, che visioni troppo monolitiche e unitarie tenderebbero a trascurare (e questo, evidentemente, non è solo un problema conoscitivo, ma di definizioni socialmente determinate dei saperi «dominanti» che esprimono e rivelano rapporti e gerarchie sociali: ad esempio nella neo cultura aziendalistica che ha ispirato la riforma universitaria la priorità è accordata ai soprattutto saperi remunerativi, che producono denaro e brevetti per le aziende).

 

4. Educare la ragione significa aprirla ai grandi temi e alle grandi domande. Qui il rischio da combattere è la chiusura – e il soffocamento – in ambiti di conoscenza settoriali. Lo specialismo, prima che una pratica è un atteggiamento mentale (ristretto). Nelle società del passato l’essere sapiente o erudito si rivolgeva all’intera conoscenza umana e coincideva con un ideale di perfezione morale (l’ideale della «sapienza»). Con lo sviluppo della scienza moderna, sempre più la competenza è venuta restringendosi e specializzandosi. Ma la conoscenza, anche se si sviluppa in percorsi sempre più specialistici come è richiesto dallo sviluppo della scienza moderna e dalla crescente complessità sociale, contiene sempre tensione alla totalità. Non c’è bisogno di ricordare Platone e Aristotele che dicevano che la filosofia come domanda sul senso della realtà – ma ciò vale per tutte le forme di sapere umano –  nasce dallo stupore. Senza questa apertura, costituita di stupore e curiosità, non c’è vera ricerca, né vera conoscenza.

 

5. C’è infine un ultimo aspetto dell’educazione della ragioneCi sono più cose in cielo e in terra di quante può immaginarne o sognarne la nostra capacità di conoscere, ci ricorda l’Amleto di Shakespeare. La ragione è perciò anche apertura a ciò che essa non può contenere, che la oltrepassa. Da questo punto di vista, come emerge dalle riflessioni di molti grandi scienziati, l’umiltà non è solo un atteggiamento morale, ma è una struttura della ragione. L’ultima domanda della ragione, che essa non può esaurire, riguarda il nesso complessivo che unisce gli eventi del mondo, la nostra vita e la «consistenza» ultima di tutte le cose. Per questo Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e don Giussani hanno così fortemente enfatizzato il fatto che fede e ragione non sono in contrasto, che la fede come ipotesi di senso sulla totalità – l’apertura al Mistero – è completamento e compimento della ragione.

Su questo punto vorrei concludere con un’ultima osservazione. Addestrare, coltivare, alimentare, educare la ragione come capacità di giudizio è essenziale perché ha a che fare direttamente con la libertà personale.

La libertà presenta due aspetti profondamente legati: a)  è l’autonomia di giudizio, cioè la capacità di dirigere da sé la propria vita, la responsabilità delle proprie scelte e della propria azione. Quindi la capacità di pensare o agire non seguendo o subendo le pressioni ambientali, l’opinione della maggioranza, i modi di comportamento o le mode culturali dominanti. b) Nella ricerca personale del vero, la capacità autonoma di giudizio è sempre intimamente connessa alla capacità di ascolto, cioè la capacità di riconoscere il vero (e il bene) là dove si mostra attraverso le parole e i comportamenti degli altri con cui siamo in relazione.

Infine coltivare la capacità di giudizio assume anche il senso di una sfida e di un compito culturale sempre più decisivo nel nostro tempo. La maggiore disponibilità di risorse informative che i media e le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione ci mettono a disposizione chiede al tempo stesso una maggiore e più elevata capacità nel sapersi orientare tra le fonti, confrontare i messaggi e selezionare ciò che è interessante e rilevante. Cioè chiede una maggiore e più consapevole capacità di giudizio.

 3. I valori nell’azione educativa

 

La seconda radice della credibilità, come si è detto all’inizio, ha a che fare con i valori. Nell’azione dell’insegnante, essi si sviluppano in due direzioni: 1) i valori nei confronti del proprio lavoro; 2) i valori che guidano il rapporto con i ragazzi.

Credo che questi valori possono essere riassunti in un’unica parola: la giustizia.Quindi una giustizia (e una moralità) nei confronti del proprio lavoro e una giustizia (e una moralità) nei confronti degli studenti. Questi due aspetti, come è facile intuire, sono intrecciati, ma per chiarezza è opportuno esaminarli distintamente.

 

3.1. La giustizia nei confronti del proprio lavoro

 

Due psichiatri, Benasayag e Schmit, hanno scritto recentemente un libro a partire dalla loro esperienza professionale quotidiana intitolato significativamente L’epoca delle passioni tristi. In queste pagine mostrano che il nostro tempo è caratterizzato dal passaggio da un sentimento del futuro come promessa e attesa ad un sentimento diffuso del futuro come minaccia. C’è una chiusura sul presente (anche se è un presente che si avverte come insoddisfacente) e l’implosione del desiderio del futuro, che è temuto più che atteso, desiderato, preparato. Ciò si manifesta anche negli atteggiamenti e nelle concezioni che guidano l’attività nella scuola. Proprio in riferimento a questo aspetto, gli autori osservano che «il desiderio è semplicemente il fondamento stesso dell’apprendimento». In questo termine vengono sintetizzati i concetti di motivazione, curiosità, interesse, partecipazione emotiva che, come hanno ormai spiegato molti studi sul funzionamento della mente, stanno alla base dell’apprendimento, della comprensione e della memorizzazione. Il significato fondante del desiderio vale su entrambi i lati della relazione. Vale dalla parte di chi vuole/deve apprendere, perché senza desiderio di imparare non si apprende nulla, si apprende in modo superficiale e senza radici. Ma vale anche dalla parte di chi vuole/deve insegnare. Senza desiderio non si insegna nulla, si è solo delle “macchine parlanti”.

Ciò che caratterizza un vero rapporto educativo è la passione e il desiderio di chi educa poiché nella passione e nella dedizione che egli mette nella sua azione educativa sta la radice della persuasività della sua azione, la possibilità di suscitare i desiderio del più giovane. Il desiderio, la passione di chi educa coinvolge, contagia, si trasmette anche a chi è educato. 

 

In che cosa consiste dunque la giustizia o la moralità nei confronti del proprio lavoro? L’insegnante deve essere serio nel lavoro che fa, deve prendere sul serio il lavoro che fa.

Un recente saggio del sociologo Richard Sennett, dedicato all’uomo artigiano, esprime esattamente questa idea. I saperi tecnici, che nascono dall’interazione di mente e mano, di ideazione e abilità, di scienza e tecnica, di arte e mestiere, non contengono solo delle cose da sapere e saper fare, ma implicano un atteggiamento culturale, un rapporto con il proprio lavoro che richiede cura e dedizione. Questo aspetto vale non solo per i lavori manuali che formano e plasmano creativamente le cose, ma vale a maggior ragione per il lavoro delicatissimo rivolto alla formazione del materiale più prezioso: lo stesso essere umano.

Cosa significa allora questo lavoro «ben fatto»? Una prima implicazione è la necessità di aggiornarsi. L’insegnante è un creatore di conoscenza, non un puro ripetitore. Trasmettere conoscenze significa sempre anche produrre, rielaborare, ricreare. Questo non solo perché tutte le discipline – dalla linguistica alla storia, dalle discipline scientifiche a quelle artistiche – evolvono, vedono continuamente nuove scoperte e acquisizioni, nuove metodologie. Ma perché è costituivo di una professione intellettuale, quale è quella di un insegnante, mantenere viva una curiosità.

Una seconda implicazione è che non si deve improvvisare. L’improvvisazione fa perdere credibilità. Sono da apprezzare i docenti che preparano appunti o che utilizzano anche i nuovi strumenti audiovisivi o informatici per «aiutare» il proprio lavoro e mantenere l’attenzione. Non che questi strumenti bastino di per sé a rendere interessante un argomento, ma certo sostengono la preoccupazione didattica e rivelano un atteggiamento. Sono mezzi utili per un fine, ma ciò che conta è il fine.

La giustizia nei confronti degli allievi

 

Qui incontriamo un aspetto problematico della professione dell’insegnante, cioè quello che i sociologi chiamano «conflitto intra-ruolo» cioè il conflitto tra due richieste e aspettative opposte in relazione all’agire dell’insegnante. 

Da un lato si chiede all’insegnante di trattare tutti i ragazzi secondo un criterio universalistico, senza particolarismi e preferenze. Però c’è anche un altro aspetto. L’educazione non è un esercizio burocratico, da impiegati, in cui si applicano esclusivamente dei criteri universalistici, propri di tutte le burocrazie, che trattano tutti – almeno in linea di principio – allo stesso modo. Ogni studente ha una sua biografia, una storia, particolari esigenze e potenzialità. L’insegnante deve perciò essere capace di mediare il criterio universalistico – cioè la giustizia astratta – con l’attenzione al percorso di ogni ragazzo e alle sue esigenze specifiche. In questi termini (relativi alle diverse situazioni e condizioni di partenza, scolastiche ed extra-scolastiche), va anche interpretato il problema del rendimento scolastico e della valutazione degli allievi.

Il problema della giustizia e dell’ingiustizia mostra una pluralità di dimensioni. Ci sono tre dimensioni principali della giustizia. C’è innanzitutto una giustizia distributiva, che consiste nel ricevere il giusto compenso per quello che si dà: se lo studente ha profuso un certo impegno nello studio, ha fatto solo due errori e si aspetta otto, si sentirà trattato ingiustamente se riceve un voto inferiore oppure se, per un compito come il suo, il compagno ottiene un voto superiore. C’è poi una giustizia procedurale, cioè garantire a tutti le stesse procedure di azione: ad esempio, sotto questo aspetto, agirà ingiustamente l’insegnante che consente ad alcuni studenti di parlare solo se interpellati, mentre ad altri permette di intervenire più liberamente. Vi è, infine, una giustizia relazionale: l’insegnante può essere impeccabile in classe nei processi di valutazione e nelle procedure, ma apparirà «ingiusto» se durante la ricreazione si ferma a parlare solo con il gruppetto dei suoi allievi preferiti.

La percezione che lo studente ricava circa l’equità del trattamento da parte dell’insegnante ha importanti conseguenze sulla sua motivazione e il suo comportamento: sentirsi trattati ingiustamente o avvertire di non essere giustamente ripagati per il proprio impegno può produrre una risposta aggressiva, di ritiro o di riequilibrio al ribasso (se ricevo poco, sono invogliato a dare poco).

 

3.3. Dinamiche dell’ingiustizia

 

Una riflessione sulla giustizia nel proprio lavoro e nel rapporto con i ragazzi deve essere allargata fino a identificare alcuni atteggiamenti più generali, più generali forme dell’ingiustizia, che possono corrodere dall’interno ogni reale responsabilità educativa.

 

Il disimpegno

 

Con il termine disimpegno non mi riferisco principalmente all’atteggiamento  originario di chi ha scelto questo mestiere come un lavoro qualsiasi, non per il suo significato intrinseco (quello che una volta si chiamava «vocazione»), ma solo per gratificazioni esterne come lo stipendio, una certa sicurezza economica o considerazione sociale e che quindi è poco immedesimato o cinico fin da principio.

Qui intendo invece il disimpegno che subentra dopo un certo numero di anni in chi originariamente era partito pieno di entusiasmo e di fiducia e che si potrebbe identificare in uno stato o un sentimento di depressione (che, tra l’altro, è un rischio che può insorgere tipicamente nelle professioni di cura).

La depressione è il contrario del desiderio ed è ciò che uccide il desiderio. Uno dei tratti fondamentali della depressione, come spiegano gli psichiatri, è che per la persona depressa «tutto è già noto», nulla la interessa, la incuriosisce o la muove profondamente. Sa già come va a finire. Perciò il tempo (anche quello passato a scuola) diventa una condanna, un peso.    

Questa depressione che può insorgere nel tempo è legata a due aspetti:

il peso schiacciante della routine. Questo aspetto dipende dall’idea della trasmissione del sapere come un fatto ripetitivo, che non implica una creatività, cioè l’accorgersi che la dimensione burocratica prende il sopravvento sulla dimensione intellettuale. Si diventa così dei puri ripetitori, appunto «macchine parlanti». Si fanno sempre le stesse lezioni, si dicono sempre le stesse cose. Si sa già tutto su come gli studenti risponderanno o si comporteranno. Niente più sorprende.

la disillusione per la vanità dei propri sforzi.È il peso delle «pressioni laterali» che non si possono mai controllare del tutto e che provengono, ad esempio, dall’ambiente familiare dei ragazzi, dal gruppo dei pari e dall’ambiente mediatico in cui tutti siamo immersi. Così si avverte che la propria azione e il proprio impegno sono relativizzati, contrastati e spesso vanificati da tutte queste altre pressioni e influenze. E questo sforzo alla fine sfinisce, svuota di energie.

 

Logiche sistemiche e responsabilità personale

 

Viviamo in un tempo in cui molti comportamenti sociali sembrano determinati unicamente dalle logiche dei sistemi in cui si è inseriti. Un sociologo tedesco, Niklas Luhmann, molto citato a destra come a sinistra, ha osservato che tutti i sistemi sociali funzionano in base a meccanismi automatici, routinari e autoreferenziali. Per il funzionamento di questi sistemi (economico, politico, sanitario, dell’istruzione) occorre che ogni agente individuale, in quanto detentore di un ruolo, svolga il suo compito secondo uno standard medio di efficienza e affidabilità. L’intenzionalità, la motivazione, la decisione o la passione individuale sono fattori del tutto secondari e ininfluenti. In questa prospettiva i diversi soggetti individuali sono perfettamente interscambiabili e fungibili e ciò che uno fa oggi un altro lo farà domani più o meno nello stesso modo. Luhmann ha chiamato il carburante di questo meccanismo che si auto-riproduce «fiducia sistemica».

A livello di azioni individuali, di coscienza soggettiva, quali sono le implicazioni e le conseguenze di questo modo di pensare e di operare? La principale conseguenza è l’idea diffusa che ciò che conta sono le «logiche» del sistema a cui non è possibile sottrarsi, alle quali si è necessariamente sottomessi. Che, insomma, non è questione di responsabilità personale.   

Così, ad esempio, si sente spesso dire che gli insegnanti non possono insegnare bene perché le normative scolastiche, le scarse risorse, i vincoli burocratici non li mettono in condizione di farlo. Si sentono giornalisti e professionisti dei media dire che essi devono applicare dei criteri di costruzione dei contenuti che rispondano alle leggi della concorrenza e della massimizzazione degli ascolti e questo spiegherebbe la banalizzazione e la scarsa qualità di ciò che vediamo e ascoltiamo tutti i giorni. E lo stesso fanno gli imprenditori quando assumono dei giovani per brevi periodi di tempo sostenendo che più di tanto non possono fare. Insomma è l’idea che la scelta e la decisione del soggetto umano conti poco di fronte delle logiche sistemiche in cui è costretto ad operare.

In realtà non è così o non è sempre così. Accanto alla credibilità del ruolo, cioè alla credibilità legata al fatto di assolvere un certo ruolo secondo regole e mansioni perlopiù stabilite da un contesto istituzionale «esterno», è sempre in gioco una credibilità nel ruolo, cioè il modo in cui l’insegnante – pur con tutti i condizionamenti presenti nell’ambiente in cui opera – vive personalmente quel ruolo, lo interpreta, vi imprime la sua umanità e la sua personalità.

La manipolazione

 

Questa terza forma di ingiustizia ha origine nella simpatia, cioè quella maggiore preferenza o sintonia umana che proviamo per certe persone rispetto ad altre. In questo si può celare una trappola, di cui occorre essere consapevoli. Gli psicologi sociali ci avvertono che la simpatia si indirizza più facilmente verso chi ci assomiglia, chi è più simile a noi nell’aspetto, nelle opinioni, negli interessi, nei valori, nell’ambiente di provenienza, nel modo di vivere. Questa leva, e questa trappola, è tanto più efficace perché in genere si tende a sottovalutare l’effetto della somiglianza sulla simpatia che si prova per gli altri. Ed è doppiamente pericolosa. Da un lato perché rende incapaci di distanza critica verso gli allievi, mentre questa distanza è necessaria, in quanto un insegnante troppo coinvolto perde la capacità di valutare con lucidità la situazione degli studenti. È però anche pericolosa dal lato del ragazzo che si sente spinto ad assimilarsi all’insegnante, alle sue idee o ai suoi modi di comportarsi, senza esserne convinto, in modo ipocrita. Cioè i ragazzi sono costretti, più o meno coscientemente, a mettere in atto delle strategie di ingraziamento, opportunistiche o collusive, nel tentativo di rendersi simili o apparire simili e bene accetti all’insegnante per trarre vantaggio dal più favorevole atteggiamento che ciò produce.

 

La radice affettiva dell’educazione

 

La radice affettiva, forse la più determinante nella relazione educativa, si esprime in due dimensioni fondamentali:  riconoscimento e reciprocità.

 

4.1. L’esigenza di riconoscimento

 

Non c’è bisogno di far ricorso alla filosofia, alla psicologia o alla sociologia, che certo ci offrono molte conferme, per riconoscere – giacché si tratta di una evidenza elementare – che ognuno di noi avverte un fondamentale bisogno di riconoscimento, che gli altri gli dicano «tu», che lo riconoscano come un «tu».

L’esigenza del riconoscimento del proprio «io» da parte di un «tu», è il bisogno di non essere uno qualunque, ma di essere guardato, considerato, stimato dagli altri. È un bisogno dell’uomo di ogni tempo, ma oggi diventa forse più acuto e drammatico poiché viviamo in una società di massa, burocratizzata dove facilmente si è concepiti come individui generici, senza qualità.

Lo psicologo Ronald Laing, riprendendo un’idea di William James, ha osservato acutamente che non c’è condizione peggiore di colui che è assolutamente libero in un mondo in cui nessuno si accorge che esiste. È perfettamente libero in un vuoto di relazioni. Solo una comparsa sullo sfondo della scena.

Questo bisogno di riconoscimento ha una sua espressione attiva nel bisogno di essere protagonisti, di un protagonismo positivo. Tale bisogno è più forte, più intenso, più struggente nell’adolescenza e nella giovinezza, cioè nella fase della conquista e dell’affermazione della propria identità.

È un bisogno così intenso che non di rado si esprime nei giovani in forme patologiche ed aberranti, ad esempio in una ricerca esasperata della visibilità, dell’esibizionismo, di identità spettacolarizzate a cui la rete e i mass media prestano modelli di riferimento e spazi di espressione.

Si tratta di un esito di una cultura narcisistica a cui corrisponde tutta un’industria dell’identità costruita e artificiale, un vero e proprio marketing della auto-esibizione. Gli episodi, spesso riportati dalle cronache quotidiane, di adolescenti si riprendono sui telefoni cellulari anche in episodi devianti per poi diffonderli su YouTube, sono espressioni aberranti di questa cultura dell’apparire e dell’identità spettacolarizzata.

Ma anche dentro queste forme aberranti c’è una domanda vera, radicale, che anche i nostri ragazzi ci rivolgono continuamente: la richiesta che qualcuno li guardi, li guardi davvero, si accorga di loro.

Quindi la terza fondamentale radice della credibilità è quella qualità della relazione interpersonale tra insegnante e allievo per cui il ragazzo è portato a pensare: «tu (insegnante) sei credibile non solo perché sei competente, sai insegnare, sei appassionato a ciò che fai, c’è una simpatia o una sintonia con te, ma tu sei credibile soprattutto perché mi guardi, mi ascolti. Perché ti lasci interrogare dalla mia presenza». Tante volte gli studenti intervengono durante le lezioni non perché abbiano una domanda particolare sui contenuti, ma quasi dicessero: «sono qui, guardami, prendimi in considerazione». O altre volte disturbano, sono irritanti o aggressivi per questa stessa ragione. È come se dicessero: guardami, occupati di me.

4.2. La reciprocità della relazione educativa

 

L’altra modalità, profondamente intrecciata alla prima in cui si esprime, la dimensione affettiva della credibilità è la reciprocità della relazione educativa. Come afferma S. Agostino nel De Magistro, la reciprocità è quella condizione in cui chi educa e chi è educato stanno all’interno di un processo, di una relazione che li comprende entrambi, nella quale entrambi crescono, diventano di più se stessi.

Sul tema della reciprocità vanno messi a fuoco due aspetti.

 

La relazione tra pari. Generalmente quando si parla di educazione, si fa riferimento ad una relazione verticale tra chi educa e chi è educato. In termini macro-sociologici si parla di trasmissione di saperi, valori, modi di comportamento, da una generazione ad un’altra. In termini micro-sociologici, cioè di relazioni interpersonali, si parla di un rapporto tra chi «trasmette», cioè l’educatore, il più anziano, il più esperto, il più istruito, il più saggio, insomma colui che è dotato di maggiori risorse, e l’educando, cioè colui che riceve e accoglie ciò che l’altro trasmette. È ciò che un’antropologa francese, Françoise Héritier, ha definito come il rapporto costitutivo tra «anteriorità» e «autorità».

Non si considera però abbastanza un altro aspetto, cioè la dimensione orizzontale dell’educazione, l’educazione tra pari.

Vorrei fare tre esempi per chiarire questo aspetto. Il primo è il rapporto coniugale tra marito e moglie. Nella coppia affettiva e coniugale ci si educa reciprocamente, ci si aiuta a diventare «adulti», a crescere nella propria umanità, a divenire responsabili, ad accogliersi e ad accogliere l’altro anche con tutti i suoi limiti. Per questo, è nel rapporto di educazione reciproca tra genitori che sta la chiave della capacità e della responsabilità educativa nei confronti dei figli.

Secondo esempio: l’amicizia. L’amicizia nasce dal riconoscimento di una sintonia e simpatia con l’altro, di una immediata corrispondenza umana e non da un interesse strumentale. È un rapporto tra pari che si basa su una credibilità affettiva, la percezione che l’altro mi voglia bene o, più esattamente, voglia il mio bene. 

Nella «conversazione amichevole» ognuno può scoprire di più se stesso, conoscere di più se stesso attraverso l’altro, ma a condizione che vi sia una qualità della conversazione e della relazione che gli amici costruiscono. È importante che lo stare insieme – e questo vale anche per la rete e i social networks – sia alimentato da un bisogno di autenticità e di pieno coinvolgimento con gli altri e con la realtà e non sia un girare a vuoto, una ripetizione di parole e gesti banali, alienanti o degradanti, fino alla saturazione e alla noia o alla ricerca di trasgressione ed emozioni forti.

Terzo esempio, centrale per il nostro tema: i colleghi di lavoro. L’impresa, il reparto, l’ufficio o la scuola sono sempre comunità di persone prima che realtà organizzative. Il lavoro comune, la cooperazione nel lavoro è educativa, nel senso che si apprende l’uno dall’altro, si cercano insieme le soluzioni, ognuno migliora la propria capacità grazie all’altro, grazie al consiglio, allo stimolo e all’aiuto dell’altro. Da questo punto di vista, la cooperazione (o ancor più, l’amicizia) tra insegnanti, il confronto tra di loro, è una guida e un aiuto anche per il rapporto che ognuno di essi ha con i propri allievi. La comunità degli insegnanti è una condizione essenziale del clima educativo di una scuola, ma anche dell’efficacia dell’azione educativa di ognuno di essi.  

La relazione complementare. Anche dove la relazione educativa ha un carattere verticale, a-simmetrico e complementare (cioè tra il più anziano e il più giovane, il più esperto e il meno esperto, come appunto nel caso del rapporto insegnante-allievo), essa deve contenere comunque sempre un intrinseco elemento di reciprocità, di cui è importante divenire coscienti, sempre più coscienti.

Infatti l’ideale di personalità matura, compiuta che muove l’educazione non può essere uno schema che il genitore impone al figlio, il maestro all’allievo, l’amico più anziano al più giovane, il lavoratore esperto all’apprendista, secondo la propria immagine e il proprio progetto, ma tale ideale deve crescere e svilupparsi nella loro relazione. Non è una “definizione” che qualcuno applica a qualcun altro, che qualcuno “cala” su qualcun altro, ma è una costruzione comune che coinvolge entrambi i soggetti del rapporto educativo, pur nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità.


Nell’educazione (dell’altro) c’è sempre anche una dimensione di auto-educazione, di educazione di sé
. Nell’educazione dell’altro c’è sempre, infatti, una domanda rivolta a sé, una sfida che implica in primo luogo il cambiamento di sé.

Ciò appare evidente quando ci nasce un figlio. Noi lo alleviamo e lo educhiamo, ma la relazione quotidiana con lui cambia anche noi, educa anche noi. Non solo nel senso che aggiunge un nuovo ruolo (quello di madre o di padre) ai nostri ruoli sociali, ma anche perché cambia la nostra psicologia e il nostro senso di responsabilità nei confronti di quella persona singola e, al tempo stesso, cambia – e allarga – l’orizzonte dell’esperienza più generale, il nostro posto nel mondo direbbe Max Scheler.

Questo vale in generale per ogni rapporto educativo. Il genitore, l’insegnante, il maestro, il lavoratore anziano influenza, forma, educa il ragazzo, l’allievo, ma ne è a sua volta influenzato, ne è cambiato. E deve accettare questo come una sfida positiva.

Romano Guardini ha espresso efficacemente il senso di questa reciprocità. In un breve saggio intitolato proprio La credibilità dell’educatore, osserva che «la più potente “forza di educazione” consiste nel fatto che io stesso [cioè, io educatore] in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere.[…] Sta proprio qui il punto decisivo. È proprio il fatto che io lotto per migliorarmi che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro».

 

5. Conclusione: il paragone personale e la domanda su di sé

 

È credibile chi chiede serietà e rigore a se stesso, prima che agli studenti. È credibile chi è giusto, cioè capace di corrispondere al loro bisogno di essere sostenuti e valorizzati.

All’educazione servono parole e segni, ma il segno più evidente è la persona di colui che insegna. Il discorso da solo non è mai abbastanza persuasivo. Le parole anche le più sincere da sole non bastano. Ciò che è veramente persuasivo è l’esempio. Per questo l’educazione non è disgiungibile dall’esempio, si realizza principalmente attraverso l’esempio e il paragone personale. L’esempio non è imposizione perché chiede una adesione libera. L’esempio non obbliga, ma ti interroga e ti provoca. Oggi questa parola non è amata, perché è avvertita come moralistica [ma questa – come direbbe Theodor Adorno – è una delle «maschere della menzogna» del nostro tempo]. Se infatti riflettiamo un po’ è facile notare che la genesi dei valori in noi ha sempre la natura di un confronto, di un paragone personale. Noi apprendiamo, abbiamo appreso, i valori che contano nella nostra vita in un incontro con delle personalità umane, li abbiamo appresi vedendoli incarnati, esemplificati in persone che abbiamo amato e ammirato, dapprima i nostri genitori, i nostri insegnanti, i nostri amici. Poi naturalmente, crescendo, abbiamo imparato a sottoporre questi valori ad un giudizio, li abbiamo provati, verificati, paragonati con le tante situazioni concrete della nostra vita, cioè accettati e rielaborati criticamente.

L’educazione è una azione presente, un impegno e una responsabilità dell’oggi, che affonda le sue radici nel passato (la tradizione o l’anteriorità di cui parlava Héritier), ma guarda al futuro, si proietta nel futuro, è una promessa che si realizza nel futuro. L’educazione è sempre una scommessa e un rischio: la scommessa che le premesse poste nel rapporto educativo possano maturare secondo uno sviluppo positivo; il rischio connesso al fatto che ciò si realizzerà in un tempo e per il concorrere di circostanze non interamente prevedibili o calcolabili, in primo luogo la libertà, la adesione libera di colui che viene educato.

Per questo il rapporto educativo, più di ogni altro rapporto umano, è basato sulla credibilità dell’educatore e sulla fiducia di chi è educato. È fondamentale che colui che viene educato, guardando a dei modelli personali convincenti, creda che un tale modello di umanità si realizzerà anche in lui, che ciò che apprende oggi gli sarà utile domani, che ciò che ora intuisce appena come valore e senso, domani lo convincerà secondo una adesione matura e consapevole.

 

Se esempio e reciprocità sono condizioni essenziali per educare, esse rinviano anche a un’altra questione. Chi educa l’educatore? Quali sono i luoghi, le relazioni, gli ambiti nei quali l’educatore può «migliorarsi» per dare credibilità alla sua sollecitudine educativa per l’altro?Quali sono i luoghi che lo aiutino a «protendersi in avanti» e a «crescere» come diceva Guardini?

Questo è un problema centrale perché oggi gli adulti sono spesso confusi circa i modelli da offrire ai più giovani. Oppure teorizzano il proprio disimpegno o impotenza con l’esigenza di lasciare i giovani liberi di fare le proprie esperienze senza troppe indicazioni o pressioni. Per questo la domanda che va posta al centro della sfida educativa è: quali sono i luoghi che gli adulti hanno a disposizione per compiere questo percorso educativo su di sé, per porsi le domande che contano?

Io li chiamerei dei luoghi di amicizia, di ascolto e di riconoscimento in cui educare se stessi, richiamare se stessi a «guardare più in là». Possono essere comunità, associazioni, luoghi di impegno sociale, civile o politico. Anche la Chiesa, come compagnia semper reformanda di uomini mossi dal desiderio dell’imitazione di Cristo, è uno di questi luoghi, per chi crede è «il» luogo, dove si impara a stare di fronte alla propria umanità e alle sue domande ed esigenze fondamentali. Dove desiderando di essere educati, si impara ad essere educatori.

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