Benché affidata in modo stupefacente a un Decreto Milleproroghe – ai tempi di Quintino Sella si chiamava Omnibus e domani, chissà, forse Millepiedi – la notizia più importante riguardante la scuola italiana annuncia una nuova architettura del Sistema nazionale di valutazione del sistema di istruzione.

L’art. 2 del decreto, comma 4-vicies semel, affida ad un apposito Regolamento, da emanare entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, la definizione dell’apparato, articolato: a) nell’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa, con compiti di sostegno ai processi di miglioramento e innovazione educativa, di formazione in servizio del personale della scuola e di documentazione e ricerca didattica; b) nell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e formazione, con compiti di predisposizione di prove di valutazione degli apprendimenti per le scuole di ogni ordine e grado, di partecipazione alle indagini internazionali, oltre alla prosecuzione delle indagini nazionali periodiche sugli standard nazionali; c) nel corpo ispettivo, autonomo e indipendente, con il compito di valutare le scuole e i dirigenti scolastici secondo quanto previsto dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150.



Il puzzle proposto ricombina vecchie tessere (le prime due) e ne aggiunge una nuova (la terza). A dieci anni dal dibattito svoltosi nel Gruppo per la valutazione, varato da Letizia Moratti nel luglio 2001, si completa finalmente un disegno, che aveva fatto capolino nella discussione, ma che il ministro Moratti aveva infilato quasi subito su un binario morto, nell’illusione di addolcire la resistenza della sinistra e dei sindacati. Era l’idea dell’Ofsted (Office for Standards in Education) inglese: un corpo centrale di circa 200 Her Majesty’s Inspectors, sotto i quali si organizzano squadre di valutatori – composte da ex-presidi, ex-insegnanti, esperti – che si recano periodicamente nelle scuole e passano al setaccio la scuola, le sue relazioni esterne, i risultati dei ragazzi, i rapporti con il mercato del lavoro, le iscrizioni e i successi universitari degli alunni usciti di là e, alla fine, stilano una relazione, che segnala i punti critici, suggerisce azioni correttive e, talora, “finali”.



Si ripiegò sulla formula Invalsi: accertamento degli apprendimenti per certe materie e per certe classi di scuola, utilizzando i test. A parte i limiti oggettivi e soggettivi delle prove per test, era esclusa la valutazione dei dirigenti e degli insegnanti. Quanto alla valutazione delle scuole, era rimasta una forte ambiguità: in effetti la valutazione degli apprendimenti non poteva essere l’unica base per valutare le scuole. Bisognava infatti valutare anche gli insegnamenti, l’organizzazione della didattica e la leadership educativa.

In più e in peggio, era stata “vietata” una graduatoria tra le scuole. Ancora fino ad oggi il gruppo dirigente dell’Invalsi, ora in uscita, esclude la pubblicità dei risultati. Pertanto, i cattivi risultati dei test degli apprendimenti venivano recepiti dai dirigenti e debitamente occultati nei cassetti e affidati alla critica ignara dei topi. Alla fine, non era prevista nessuna misura né per premiare il personale migliore né, soprattutto, per correggere o per allontanare dalle scuole il personale irrecuperabile né per chiudere delle scuole dannose per i ragazzi.



 

A dieci anni di distanza, si procede finalmente ad integrare l’Invalsi con le sue preziose indagini e il suo personale scientifico con il resuscitato Indire (che Fioroni, forse perché medico, aveva ribattezzato Ansas semplicemente a fini chirurgico-politici: nome nuovo, gruppo dirigente nuovo!) e con l’istituzione di un Corpo di ispettori, dai compiti molto simili a quelli dell’Ofsted.

 

Mentre il Governo e il ministro procedevano finalmente con passo spedito sulla strada del miglioramento della scuola pubblica, nonostante le forti resistenze sindacali al progetto di sperimentazione, di cui questo giornale ha ampiamente parlato, il capo del Governo si è lanciato in un’esternazione contro la scuola statale – che con ostinazione degna di causa migliore continua a definire “pubblica”. Occorre, naturalmente, fare la tara sulle affermazioni estemporanee di Berlusconi: anche la categoria degli insegnanti come tale è “comunista” (come Tony Blair, Gerhard Schroeder e Giorgio Napolitano)? Davvero le scuole hanno tale potenza “educativa”? o non soffrono semmai, come moltissime famiglie del resto, di impotenza educativa?

 

Tuttavia, nella sostanza Berlusconi ha ragione: la scuola pubblica (statale e paritaria) fa una fatica crescente a rispondere alla domanda educativa delle famiglie e al bisogno di sapere critico dei ragazzi. Ma si deve notare che i due governi di centro-destra degli anni 2000, diretti da Silvio Berlusconi, hanno avuto una percezione tardiva di ciò che oggi Berlusconi clamorosamente denuncia e che, come i governi di centro-sinistra, si sono mossi con straordinaria lentezza, al rimorchio delle immarcescibili corporazioni sindacali. Un esempio? Appunto il comma 4 vicies semel: era già stato proposto nel 2001, parte solo in questi giorni.

 

E si deve anche notare che la condivisibile ipotesi della libera scelta delle scuole da parte delle famiglie resta una predicazione comiziale finché Berlusconi non si decida a imitare Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Svezia, Finlandia… Dare i soldi ai ragazzi e alle famiglie, perché li vadano a spendere nella scuola di loro scelta.

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