Dopo aver assistito alla messa in onda della fiction di Raiuno Fuoriclasse sorge una sottile nostalgia per film visti e rivisti che hanno come tema la scuola e dintorni.
Devo dire che la produzione migliore ha marchio straniero, dallo storico Zero in condotta di Jean Vigo (1933, dato nelle sale solo nel 1945), al coraggioso Ricomincia da oggi del grande Bernard Tavernier, fino al recente La classe. Entre les murs del 2008, di Laurent Cantet.
Stando a casa nostra, ricordo Io speriamo che me la cavo con un grande e plausibile Paolo Villaggio e La scuola di Daniele Lucchetti, datato 1995.
Se le pellicole straniere affrontano solitamente le problematiche della scuola inserite in un contesto socio-culturale complesso e a volte drammatico, quelle italiane presentano situazioni con maggior benevolenza, senza tralasciare di stigmatizzare questioni aspre, come nel citato Io speriamo che me la cavo.



Perché la visione di Fuoriclasse suscita questa ondata di nostalgia? Spazzando il terreno da equivoci quali la valutazione stilistica del prodotto, ben diversa in un film ed in una fiction, il paragone si impone su registro narrativo, contenuti e personaggi. La vita in una scuola è recitata da attori quasi sempre con ruoli fissi: preside, docenti, alunni, bidelli, genitori. E la scuola è un universo attraversato da sempre da sofferenze: burocratiche, economiche, relazionali tra docenti e studenti e tra docenti e docenti, e così via.



Quindi, la fiction di Raiuno non può che mettere in scena tali disagi. Quello che non torna è il registro e la profondità con cui li affronta. Si può fare satira, umorismo o messa in burla di situazioni e personaggi. Già, perché Fuoriclasse presenta “macchiette” prese da luoghi comuni e a volte improbabili. Raramente vengono messi in scena situazioni che raggiungono la climax che fa stare col fiato sospeso o che suggerisce un paragone con un problema serio ed autentico.
Per quanto possano far sorridere i “caratteristi” da commedia sia tra i prof sia tra gli studenti, essi sono talmente prevedibili e così poco “drammatici” che non suscitano simpatia perché vengono riconosciuti come i colpevoli dei disagi in cui versa la scuola. Ma si può costruire una fiction che rispecchi la realtà e al tempo stesso metta sotto i riflettori elementi positivi di un contesto? Risponderei in modo affermativo, andando col pensiero a serie televisive come Dr. House, CSI, e la nostrana Provaci ancora Prof. con protagonista una Veronica Pivetti nei panni di una plausibile ed umana prof./detective. Cerco allora di individuare la cifra che rende realistici, dinamici e coinvolgenti tali prodotti televisivi.



Innanzitutto il contesto. Che si tratti di ospedale, di laboratorio scientifico, di scuola, il contesto è riprodotto con la massima fedeltà alla realtà. Non è solo questione di location (Fuoriclasse è girato in una vera scuola di Torino), è anche questione di ritmi, routines, di ruoli ascritti da organigramma ai personaggi.

I personaggi sono tratteggiati secondo un profilo professionale rigoroso e socialmente riconosciuto. Dr. House è un medico più che qualificato, addirittura unico e insostituibile. Grissom è un responsabile della Scientifica che tutti vorrebbero vedere all’opera in un’indagine grazie alla sua preparazione e alla sua precisione. Attenzione. Questi personaggi non sono umanamente perfetti. House è un nevrotico e apparentemente disumano e cinico, ma chi non desidererebbe essere curato da lui in una situazione di malattia seria? Grissom si presenta come lo scienziato che rasenta la pedanteria e la misantropia e predilige i lepidotteri a certe relazioni umane. House e Grissom hanno debolezze, manie che si manifestano anche nella vita privata, vita che viene svelata per disegnare il personaggio a tutto tondo ma che non li  sminuisce nel loro essere professionisti.

Le procedure che seguono i protagonisti (ma anche tutti gli altri personaggi di contorno), il lessico, i gesti sono precisi e corretti, non sono buttati lì con approssimazione. Stupiscono gli errori grossolani presenti nella fiction di Raiuno. Qualunque addetto ai lavori che abita la scuola sorride mestamente di fronte a svarioni anacronistici che oggi non stanno più nell’ambito scolastico (la preside è oggi dirigente scolastico, l’amministrazione non compete al vice preside che viene designato dal dirigente, non eletto…). Nelle serie americane è garantita la correttezza e la veridicità di ogni termine medico/tecnico e la presenza di strumentazione autentica e funzionante.
Produttori, regista e sceneggiatori di Raiuno non hanno pensato ad un consulente esperto del mondo della scuola, quantomeno al corrente dei cambiamenti intervenuti in essa in questi anni?

Gli “eroi” delle serie televisive citate sono invischiati in situazioni personali e professionali di vario tipo, ma è sempre chiaro l’obiettivo che devono perseguire; si direbbe, oggi, la loro “mission”. Ora, stando alle scene di Fuoriclasse è difficile capire qual è l’obiettivo educativo (più prosaicamente, di istruzione) che si danno i professori nei confronti degli studenti. Tollerarli, contenerli, coinvolgerli in truffe, abbonare loro – in nome dell’età adolescenziale – fatiche ed impegno? (a questo proposito mi torna in mente la splendida pellicola Non uno di meno di Zhang Yimou, 1999, in cui una ragazzina tredicenne, senza alcuna esperienza di insegnamento, rimane fedele tra mille difficoltà allo scopo che le ha indicato il maestro anziano).
Non ci siamo. I prof che sono impegnati oggi nella scuola reale si trovano di fronte, tra tanti, a due problemi da superare a gambe unite: evitare di cadere in burnout e trovare la breccia che consenta di arrivare al disagio ed al bisogno degli studenti. E nessun docente può pensare che sia plausibile far scorazzare su e giù per i corridoi e per i tetti il “Soratte” di turno perché si recuperi la falsa “eccentricità” del soggetto e, soprattutto, lo si aiuti. Perché la scuola deve essere un “ambiente per l’apprendimento” e tutti coloro che la abitano, docenti e studenti, devono trovare dei cartelli indicatori che segnalino un percorso che renda il tempo scuola un tempo dello star bene e del crescere.

La scuola italiana è piena di contraddizioni e di carenze, eccome, ma allora mettiamoli in scena a viso aperto, sia pur con uno stile letterario. La levità e l’ironia con cui si può rappresentare un microcosmo scolastico è ben accetta, la riduzione a macchietta di luoghi e persone un po’ irrita, credo, soprattutto, chi con quel microcosmo deve fare i conti. E non si dica che la fiction è la “fiction”, quindi deve essere “leggera”. Leggera non è sinonimo di banale né di superficiale. Leggera è una fiction che fa riflettere senza usare toni catastrofici, suscitando, magari, un filo di speranza nel cambiamento.
Ridendo castigat mores. Ma rappresentando la realtà.