Nel dibattito che ultimamente ha ripreso vigore sulla questione educativa in Italia, grazie anche ad un importante convegno organizzato dall’Associazione Il Rischio Educativo e dalla Fondazione per la Sussidiarietà (e complici le polemiche suscitate da recenti affermazioni del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi) una delle domande centrali riguarda la funzione specifica propria della scuola nel contesto educativo in cui i giovani sono chiamati a vivere.



Provo a rispondere alla questione a partire dalla mia esperienza, dapprima di studente, e poi di genitore e di insegnante. Cosa si aspetta uno studente dalla sua scuola, in particolare negli anni della prima adolescenza? Cosa si aspettano per lui i suoi genitori? È intuitivo capire che siano cose diverse da quelle che può trovare in famiglia, nel gruppo dei propri amici, o nella squadra in cui si fa sport. Quello che accomuna l’attesa di allievi e famiglie, in fondo, è questo: che i ragazzi possano trovare un ambiente dove crescere e imparare.



Per quanto elementare, questa affermazione contiene tre elementi fondamentali per inquadrare la risposta alla domanda “Che cos’è la scuola”. Innanzitutto un ambiente: vuol dire che chi entra a scuola si attende di trovare un contesto, o meglio un luogo, che abbia una sua specifica identità, un luogo con il quale avere un rapporto, anche dialettico, o perfino conflittuale, nel quale però crescere.

Siamo così al secondo degli elementi. Crescere, cioè prima di tutto riconoscersi, vedersi in azione, diventare più capaci di affrontare la realtà. Diventare grandi, insomma. Ma perché questo rapporto si costituisca occorre sia possibile da subito riconoscerne una convenienza: diversamente il rapporto non si può approfondire, rimane formale, può spesso essere percepito come una pura e semplice perdita di tempo. Mi aspetto quindi che quello che mi viene insegnato sia utile, mi serva, intercetti il mio essere, mi interessi cioè, secondo la radice etimologica di questo termine.



Nella scuola si insegnano però diverse “cose”; anzi questo è un suo elemento costitutivo e probabilmente una condizione specifica perché a scuola avvenga l’educazione, che non può essere ridotta ad un pistolotto morale o ad una tirata ideologica, e nemmeno essere delegata alla partecipazione emozionale in momenti eccezionali. Anche nella scuola l’educazione è sempre l’esito di condivisione sensata e piena di ragioni di un lavoro specifico.

 

Il problema vero di noi insegnanti si situa esattamente a questo punto: avere chiaro cosa sono le “cose” che insegniamo, e quali le condizioni per cui l’insegnamento è sensato (per noi che lo esercitiamo professionalmente e per gli allievi che lo ricevono…).

 

Se queste “cose” fossero, in ultima analisi, meri “metodi”, due sole possibilità sono date. O sono gli uni diversi dagli altri, perchè si esercitano su oggetti disparati e si giustappongono così nella sequenza oraria della giornata dello studente, mere “discipline” insomma; o sono tutte riconducibili ad un unico metodo, quello cosiddetto “scientifico”. La scuola sarebbe sì un luogo: ma di alienazione, perché ciò che imparo non è determinato in nulla da quello che mi interessa, ma totalmente da fattori “altri”; di disintegrazione, perché ogni cosa che imparo non c’entra nulla con le altre ma è “determinata” solo da se stessa.

 

In queste condizioni quale possibilità rimane allo studente per tentare di portare ad unità ciò che viene invitato ad apprendere, di passare cioè dal “sapere” alla “cultura”?

 

La prima condizione perché le “cose” che insegniamo siano sensate è dunque che siano determinate, selezionate e ordinate da qualcosa di oggettivo, di riconoscibile cioè al di fuori, anzi prima, delle categorie su cui si articola la scuola, da un “pezzo” di realtà riconosciuto (ancorché in modo rozzo) “utile” dall’allievo perché significativo per la sua crescita umana, culturale e sociale.

Questo pezzo di realtà ha valore in quanto può essere colto dallo studente all’interno della più ampia realtà di cui fa esperienza e in cui emerge il suo primo, fondamentale, ineliminabile significato. Di questo l’insegnante è da un lato il testimone (i contenuti che ti insegno c’entrano, anzi compongono – insieme ad altri – la realtà particolare che ti interessa, che ti fa crescere e che ti serve nella vita) e dall’altro il garante della sua validità culturale (il metodo che utilizzo per leggerli è razionalmente/ scientificamente fondato). La “cosa” che insegno è quindi molto più chiaramente definita dalla parola “materia”, cioè pezzo di realtà, parte di una realtà più complessa.

 

La seconda condizione è che esista lo spazio per un effettivo “lavoro collegiale”.  Lavoro finalizzato prima di tutto e soprattutto a individuare, descrivere, selezionare e ordinare il punto di realtà oggetto del nostro insegnamento comune. Nell’istruzione e formazione professionale e nell’istruzione tecnica questo oggetto è il lavoro, o per meglio dire l’ambito di professionalità e la cultura professionale proprio del lavoro per il quale prepariamo i nostri allievi.

 

In quest’ottica ha senso il lavoro sulle competenze, nella misura in cui queste ultime sono i riverberi, nell’esperienza e nell’autocoscienza del ragazzo, dell’habitus culturale e personale della sua professionalità, o, estendendo l’argomento a tutti gli ordini di istruzione, di quello che possiamo chiamare il suo “profilo in uscita”.

 

Se invece le competenze fossero solo espressione di un meccanismo didattico, di una riduzione ad addestramento e a condizionamento (cosa che si verifica ogni volta che si stacca l’istruzione dalla formazione) o il modo per spacciare per buona la moneta falsa dell’“interdisciplinarietà” (che ha gli stessi identici limiti e difetti della disciplinerietà, con in più una buona dose di confusione…) rischieremmo di perdere un’occasione – quella storicamente propria di questi tempi – di reintrodurre la realtà come oggetto di apprendimento che ha un suo specifico diritto di cittadinanza nella scuola.