Interesse è un lemma, anzi una questione, che ricorre spesso sulle pagine di questo quotidiano nella sezione Educazione. Anche recentemente, con gli articoli di Foppa Pedretti e Valenti che l’hanno messa di nuovo a tema.
È una questione che mi sta particolarmente a cuore, non foss’altro per la frequenza con cui la sento porre davanti a me dalle persone che mi vengono a trovare: non mi interessa, nella variante fornita dal ragazzo o non gli interessa nella lamentela del genitore. Di solito quest’ultima più radicale e predittivamente definitiva: non gli interessa niente!
Avrei la tentazione di discutere la variante dell’adulto, così spesso viziata dal mancato riconoscimento della realtà oggettiva: non esiste alcun ragazzo cui davvero non interessi niente, a meno che viva già la gravità di uno scivolamento verso uno stato catatonico. Più solitamente il problema è che i suoi interessi sono diversi da quelli che abbiamo prescelto noi, di quelli che desideriamo per lui. È una questione che ha a che fare col ragazzo ideale che come adulti abbiamo in testa, che ci rende incapaci di guardare al ragazzo reale e ripartire da lui. Magari proprio da quel suo unico interesse che non dobbiamo mai disprezzare o scoraggiare, a meno che non gli arrechi dei danni, ma che anzi va stimato per il solo suo darsi.
In questo contesto mi preme però affrontare il tema secondo una prospettiva più ampia. Vorrei osservare come la questione dell’interesse venga solitamente trattata all’interno di un errore generale, che coinvolge adulti e ragazzi. Anzi prima i grandi dei minori.
Viviamo tutti dentro una strana credenza, ossia che l’interesse si autogeneri. Sarebbe infatti qualcosa di indefinito, una specie di frisson dell’anima che esortandoci da dentro ci rende capaci di volontà, impegno e dedizione nel perseguire un dato fine o seguire una certa strada. C’è chi poi si sbilancia più sul sentimentale avvertendolo come un’emozione o un brivido interno e c’è chi si sbilancia su un versante più razionale considerandolo una pura decisione dell’io.
L’errore comune resta pensare che prima esiste (o arriva) l’interesse e poi ne segue (quasi meccanicamente) l’impegno con il suo oggetto, di cui la materia di studio scolastico non è che solo una delle possibili applicazioni, sebbene quella su cui ci si tende di più a fissare. L’interesse invece non si autodetermina, non nasce per abiogenesi o generazione spontanea. L’interesse viene sempre suscitato, sollecitato dal reale.
Da qui il ribaltamento, su cui aiutare i nostri ragazzi: non è perché ti interessa la storia che inizi a studiarla, ma ti interesserà la storia quando avrai iniziato a studiarla. E verificato la corrispondenza con te ad esempio nella sua potenza nel permetterti connessioni, nella sua utilità nel comprendere il presente, nel suo suscitarti idee nuove.
Anche qui nulla di automatico, per la carità. Resteranno sicuramente sacche di minor rispondenza a sé, di minor fascino, ma saranno tali almeno secondo un giudizio del soggetto, non un preconcetto. Consideriamo tuttavia che tanto più un soggetto sta bene, tanto più è potenzialmente interessato a tutto.
Per questo, di fronte a una certa apatia di un ragazzo – cui non possiamo mai rassegnarci liquidandola come un male necessario dell’età, senza chiedercene le reali motivazioni – occorre intervenire fornendo noi un supplemento di energia: mettiti al lavoro! Anche se ti sembra immediatamente lontano da te quello che devi affrontare. Poi mi dirai… L’invito non è all’impegno per una generica obbedienza o per mero doverismo, ma per sperimentare l’esistenza o meno di un guadagno, di un supplemento.
Il concetto di interesse che personalmente mi preme è molto vicino a quello che ho come correntista bancario: ci metto del mio, ossia investo, per ottenere qualcosa di più che prima non c’era. In alcuni casi – e sappiamo che vale anche per alcuni investimenti finanziari – addirittura non prevedibile o non predeterminabile all’inizio.
Solamente da pochissimo tempo ho iniziato ad apprezzare un detto scherzoso che fino ad oggi ho usato nella sua connotazione per lo più negativa: voglia di studiare saltami addosso. Ho recentemente scoperto quanto possa essere l’auspicio di un ragazzo sano, perché accade proprio così: la voglia di studiare (ma perché no, di lavorare, di amare, di impegnarsi nel sociale, di guardare un film) all’inizio salta sempre addosso, arriva da altro, rappresenta l’invito che il reale – con tutti i soggetti che lo costituiscono – mi fa. Non nasce in primis da dentro, dal mio sforzo coerente o caparbio.
Poi certo starà a me proseguire, ma in quel caso il mio interesse – da cui derivano impegno e dedizione – sarà la forma che assume il desiderio del ripetersi di un’esperienza soddisfacente, un’esperienza di guadagno personale.
Allora, dire mi interessa raramente è un dato di partenza. È piuttosto un successo, nel senso che accade. E per lo più su invito, a tredici come a cinquantanni.