Hanno cominciato alcune scuole, decidendo di rendere pubblici i dati delle prove Invalsi. Con i dovuti distinguo, certo, ma con lo scopo dichiarato di far sapere che lì si insegna sul serio e bene. Poi è venuto il decreto milleproroghe, che prevede, tra l’altro, l’istituzione di un corpo ispettivo con il compito di valutare le scuole e i dirigenti scolastici. Che il miglioramento del sistema-scuola debba passare per la valutazione, sono tutti d’accordo. Sul come, un po’ meno. Il sussidiario ne ha parlato con Andrea Ichino, economista, che ha dedicato a questo tema il suo editoriale di lunedì sul Sole 24 Ore.
Ichino, a quali policies deve ispirarsi la valutazione per migliorare il sistema?
Partiamo da un fatto: allo stato delle cose, chi fa meno ottiene un premio. Sì, perché in una situazione nella quale a tutti è riservato lo stesso trattamento, chi meno contribuisce alla qualità del sistema riceve un vantaggio. La domanda che viene dopo è: preferiamo questo sistema o un sistema alternativo che cerchi una soluzione più equa? Detto questo, se pensiamo che il sistema attuale non sia il sistema ideale – e secondo me non lo è – allora per quante difficoltà ci siano nel cercare soluzioni alternative dobbiamo sforzarci di trovarle.
Eppure, il nostro sistema di valutazione effettua indagini in base a precisi standard internazionali.
La realtà è che troppi giovani laureati brillanti non vedono più nella scuola la strada ideale per la loro vita. Questo è vero soprattutto nella materie scientifiche, e nel caso delle donne è un dato evidente. Tante donne che un tempo avrebbero fatto l’insegnante oggi si dirigono verso altre professioni. Il mercato del lavoro è cambiato, ma perché la scuola non attira più i laureati – o le laureate – migliori? Questo è il problema più grave, e richiede un riorientamento di rotta.
Non siamo però all’anno zero. Basti pensare al lavoro dell’Invalsi e alla misurazione standardizzata degli apprendimenti, in grado di fornire dati omogenei. Lei lo ha detto chiaramente nel suo editoriale.
Sì, ma l’Invalsi si limita innanzitutto a misurare: non è in questo momento un istituto di valutazione. Con le sue rilevazioni degli apprendimenti fornisce un elemento della valutazione, che come tale presenta vantaggi e svantaggi. Il vantaggio sta nell’oggettività dei dati. Gli indicatori numerici non riescono però a cogliere la complessità del processo educativo. Poi distinguerei il problema di cosa dev’essere reso pubblico e cosa no: la valutazione è fatta solo per informare la scuola valutata della sua condizione rispetto alla media nazionale, o per informare tutti? E infine: valutiamo le scuole o valutiamo anche gli insegnanti? La valutazione degli apprendimenti è uno strumento che si adatta bene alla valutazione delle scuole, ma non necessariamente a quella degli insegnanti perché è praticamente impossibile attribuire gli apprendimenti di uno studente al lavoro di un singolo docente, tranne forse che nella scuola primaria. Come vede, passando dalla misurazione alla valutazione i problemi si moltiplicano e la faccenda si fa molto più complessa.
Da dove dobbiamo cominciare per arrivare ad un sistema fondato sulla valutazione?
Le rispondo partendo dal mondo “ideale” al quale dobbiamo riferirci per capire come realizzare gli obiettivi. In esso c’è piena autonomia delle scuole, cioè autonomia gestionale: di assunzione, di licenziamento, di retribuzione con annessa progressione di carriera. Ogni scuola decide di organizzarsi come preferisce, programmi compresi, ovviamente dentro binari previamente stabiliti dal ministero. In altre parole, posti i requisiti minimi necessari per fare una scuola, ognuno la fa come crede.
E poi?
E poi gli organismi di valutazione dicono: care scuole, ora vi valutiamo per vedere se avete raggiunto i risultati. I fondi verranno erogati in funzione dei risultati raggiunti.
Prendiamo i docenti. La funzione ispettiva prevista dal milleproroghe lascia completamente fuori il problema della loro valutazione. Non occorrerebbe prima una seria riforma della classe docente che ne cambi lo status giuridico e con esso il profilo professionale?
A proposito del milleproroghe, premetto che la critica che ne ho fato sul Sole era solo di metodo: mi sembra assurdo che il nuovo sistema nazionale di valutazione delle scuole e degli insegnanti venga inserito in un decreto milleproroghe, di cui il nome è la confessione dell’incapacità di un’amministrazione di fare le riforme con una normativa organica e non con tasselli buttati lì, in un complesso difficile da capire. Detto questo, abbiamo bisogno di una razionalizzazione che a regime dovrebbe prevedere quello che le dicevo prima: autonomia delle scuole, definizione chiara degli obiettivi che le scuole devono conseguire, valutazione ex-post dei risultati ottenuti.
Come valutiamo le scuole e come valutiamo gli insegnanti?
La valutazione delle scuole può essere fatta sulla base di indicatori oggettivi come i test di apprendimento, nella forma del valore aggiunto decontestualizzato, ma questo non basta: ci vogliono gli ispettori esterni come accade in altri paesi. Staremo a vedere se il governo riesce a creare un corpo di ispettori autorevole e ben formato. Totalmente diverso è il problema della valutazione dei docenti. Qui dovremmo discutere se è preferibile avere degli ispettori esterni o interni. Io personalmente sono per questi ultimi perché un corpo esterno, per essere efficace e quindi proporzionato al numero dei docenti in servizio, comporterebbe costi sconfinati.
Nel sistema-modello come risolverebbe il problema dei docenti?
In questo sistema le scuole vengono valutate, ricevono i fondi, assumono i docenti e decidono le retribuzioni. Se un docente è bravo avrà più scuole che lo vogliono ed una retribuzione migliore. Qui non si pone il problema di una valutazione dei singoli insegnanti, perché questi sono valutati e premiati in base a quello che il mercato percepisce di loro. Ma ho qualche legittimo dubbio che questo sistema possa mai esistere in Italia…
Allora nel nostro contesto come possiamo individuare e premiare gli insegnanti migliori?
Questo è il punto che la sperimentazione per la quale mi sono speso puntava a risolvere (il progetto sperimentale varato dal ministro Gelmini nel novembre 2010 di premiazione del merito dei docenti e di valutazione delle scuole, ndr).
Ma la logica di un comitato di valutazione (il preside più due docenti) interno alla scuola di appartenenza non le è sembrato un punto debole?
Parliamo di una sperimentazione. Molti se ne sono dimenticati e la loro opposizione si è rivelata preconcetta. In questi casi, se si rimane a livello teorico, la discussione può andare avanti all’infinito e non si troverà mai una soluzione. Io non sto mettendo la mano sul fuoco sul fatto che la soluzione interna sia la migliore, dico solo che occorrerebbe provare. Torno a dire che la soluzione esterna presenta costi folli e per questo è impraticabile. Quando anche fosse possibile, si porrebbe poi un problema di autorevolezza dei valutatori. Chi sarebbero, i professori universitari? Non scherziamo. Non vedo invece perché all’interno di una scuola debba essere considerato impossibile che una comunità scelga quei docenti da tutti riconosciuti al di sopra della media e capaci di giudizio.
Probabilmente i sindacati non rimarrebbero a guardare.
Quello che mi ha colpito, in questi mesi in cui sono stato coinvolto in questa vicenda, non è stata tanto l’opposizione dei sindacati, ma degli stessi docenti, la cui mentalità prevalente rifiuta ogni forma di differenziazione. E poi rifiutano che essa possa essere stabilita da una commissione di pari, cioè di colleghi. Nella ricerca scientifica la valutazione dei pari è spesso considerata il metodo più ragionevole: non può farla un collegio docenti? È anche questo il frutto di una mentalità sindacale, mi dirà. Innanzitutto, però, è l’idea che l’insegnante faccia il suo lavoro solo per una motivazione intrinseca, “vocazionale”.
…e monetizzarla è considerato svilente.
Sì. Peccato che poi i docenti si lamentino, e giustamente, di essere pagati poco. Occorre poi fidarsi del valutatore. Per molti è stato così: poiché non mi fido di essere valutato nel modo corretto, hanno detto, allora preferisco non essere valutato. Rispondo: proprio per questo motivo preferirei che la valutazione fosse interna. Le ripeto, chi ha avversato il progetto ha smarrito il senso della sperimentazione: se ci sono anche solo cento scuole in cui l’esperimento può funzionare, proviamolo, e quelle cento metteranno in moto un circolo virtuoso che cambierà le condizioni.
Lei vede come punto finale di una politica della valutazione una graduatoria delle scuole italiane, dalla migliore alla peggiore?
Assolutamente sì. È nell’interesse delle famiglie. Non solo: ci deve essere anche una graduatoria degli insegnanti. Chi è contrario a questa pubblicità deve spiegare con quale faccia consente a che la famiglia meno informata mandi suo figlio in una scuola di bassa qualità quando avrebbe potuto scegliere una scuola migliore. Stiamo facendo un servizio soprattutto ai meno abbienti, a quelli che godono di minori informazioni e che finiscono nelle scuole di minor qualità. O siamo così ingenui da pensare che le scuole siano tutte uguali, allora la pubblicazione è inutile; oppure pensiamo che la valutazione non identifichi sul serio le scuole migliori.
Ma quale capacità di lettura occorre per interpretare dati così complessi? E se le famiglie non cercassero solamente una scuola che in un test ha ottenuto un punteggio più alto?
Ma non stiamo parlando solo di test. L’Ofsted produce graduatorie che sono fatte sulla base dei test, ma anche delle ispezioni. Report di pagine e pagine che uno si può leggere per vedere cosa c’è di buono e di cattivo in ogni scuola. Davvero le famiglie sarebbero incapaci o rinuncerebbero a valutare? Diamo allora degli idioti agli italiani, ma ricordiamoci che ogni anno le famiglie si chiedono dove mandare i figli a scuola, qual è la sezione migliore, e cercano informazioni in tutte le forme e in tutti i modi. Una scelta che finora è avvenuta in modo non trasparente e che sicuramente favorisce le famiglie più abbienti. Se partiamo dal presupposto che sia possibile costruire una graduatoria affidabile, e una sperimentazione serve a verificarlo almeno in parte!, non trovo francamente un argomento favorevole al non rendere pubblica una graduatoria.
Questo non provocherebbe una migrazione di persone dalla scuola cattiva a quella buona?
Succederà: benissimo, vorrà dire che la cattiva dovrà cambiare. Migliorare è possibile: in Inghilterra il 50-60 percento di scuole classificate negativamente riesce a cambiare in modo sensibile la propria posizione nella rilevazione successiva. In Italia abbiamo una tara culturale: pensiamo ad una classifica come a qualcosa di immutabile.
Un sistema basato esclusivamente sul merito non finisce per aumentare e legittimare la diseguaglianza?
No. Una vera valutazione non implica che l’azione che ne consegue sia solo quella di dare un premio ai migliori, scuole o docenti; può essere quella di dare un premio ai migliori, ma poi anche di aiutare le scuole in difficoltà. Qui la valutazione si ferma e lascia il posto alle necessarie scelte politiche. Una classifica serve innanzitutto a competere ad armi pari; ma se non misuriamo, non sapremo mai come e dove intervenire.
In altre parole?
Premiamo i docenti che riescono a mandare gli allievi alle olimpiadi di matematica o quelli che riescono a fare la scuola di Barbiana? È una scelta politica; ma per sapere chi sono gli uni e chi sono gli altri, occorre valutare.
(Federico Ferraù)