I dati sull’abbandono scolastico fanno riflettere e preoccupare, non solo per la loro estensione quanto per la loro capacità di attraversare trasversalmente tutta l’Italia, tanto da non essere confinabili nelle sole aree deboli, né rinviabili ai contesti sociali più sfavoriti. Anche volendo tener conto della quota consistente di quanti, lavorando al nero, figurano semplicemente inattivi (e quindi la cifra di 120mila presentata nell’indagine di Tuttoscuola può essere consistentemente ridotta), il dato resta comunque preoccupante. Quando si abbandonano i licei, gli istituti tecnici e i centri di formazione professionale, quando si chiudono i quaderni a metà percorso e si portano i libri in garage, si è dinanzi ad un giudizio di inutilità che concerne il cuore stesso del percorso formativo e di inserimento sociale. Non si percepisce solo la mancata efficacia del titolo di studio, ma l’inutilità del processo conoscitivo in sé.
Un tale problema non è affatto solo di carattere scolastico. Quando infatti ad un simile giudizio negativo sul proprio percorso formativo si accompagna un mancato inserimento nel mondo del lavoro, allora almeno una parte del problema chiama in causa un contesto che va al di là delle aule scolastiche. Osservando sul piano dei processi culturali di medio periodo non c’è dubbio di come sia proprio la volontà di crescita di un’intera società, con le sue motivazioni e i suoi progetti, ad essere oramai in via di trasformazione. Se è noto a tutti come la spinta propulsiva degli anni sessanta – quelli che in Francia chiamano i “trenta gloriosi”, cioè gli anni compresi tra il 1945 ed il 1975 – sia completamente esaurita sul piano economico, pochi sembrano rendersi conto di quanto questa sia esaurita anche sul piano culturale e morale.
Il lavoro così come lo può offrire oggi il mercato, legato a mansioni parcellizzate, generico e poco qualificante, anche quando fornisce un’autonomia economica personale, non fonda la possibilità di un’indipendenza effettiva. Pur tuttavia il problema del mancato inserimento nel mondo del lavoro non risiede nell’insufficienza di quest’ultimo a garantire un inserimento adeguato ed a consentire un’autonomia effettiva. In realtà si può – e si è sempre potuto – lavorare, sopportare il basso stipendio del primo, secondo e terzo lavoro, dedicarsi a compiti marginali e mal retribuiti (ovviamente entro determinati limiti). È quanto è accaduto alle generazioni precedenti.
La differenza risiede nel fatto che queste affrontavano la precarietà in funzione di un progetto più ampio di promozione professionale e di emancipazione personale, un progetto del quale il lavoro non era che una componente. In altri termini, si è sempre potuto lavorare con scarsi guadagni a condizione che il lavoro costituisse solo una parte del proprio percorso di vita e quest’ultimo coincidesse con un progetto personale, con un desiderio elementare di realizzazione, di promozione di sé stessi e dei propri obiettivi: siano questi quelli della semplice emancipazione professionale ed economica oppure, all’opposto, quelli di una vera e propria promozione personale, fondata su competenze effettive o comunque concretamente acquisibili.
Quando si è dinanzi ad un abbandono tanto dello studio quanto del lavoro la vera emergenza diviene quella di una crescente incapacità di strutturare il proprio desiderio di realizzazione. Il problema fondamentale consiste proprio nel fatto che gli obiettivi minimi, che da sempre hanno sostenuto le volontà di emancipazione dalla famiglia di origine e di inserimento professionale, non sono più oggi percepiti come nel passato. Manca cioè la formalizzazione del desiderio, la sua traduzione sul piano operativo: il realismo critico degenera rapidamente nella rinuncia a qualsiasi dimensione realizzativa, una rinuncia che, in un contesto di scarsa tensione morale, conduce rapidamente alla inattività.
Si può lavorare anche in un contesto di precarietà e di dipendenza quando il lavoro consente di acquisire competenze percepite come importanti, oppure quando consente, comunque, di seguire un percorso di formazione parallelo, soggettivamente percepito come significativo (è il caso degli studenti-lavoratori). Si può sopportare qualunque precarietà o insoddisfazione quando si ha in tasca e nel cuore un progetto di vita al quale quello stesso lavoro può essere funzionale, o comunque non essere di ostacolo.
Dietro le decine di migliaia di abbandoni scolastici che non si risolvono in un inserimento lavorativo sostanziale c’è pertanto qualcosa di più grave della semplice insoddisfazione scolastica. In realtà si profila un’incapacità (o una rinuncia) dei soggetti a definire il proprio stesso desiderio, è presente una crisi di progettualità che transita, ed è questo il vero dramma, per un sottodimensionamento della propria stessa esistenza, dove il quotidiano basta a sé stesso ed anche il pensare al futuro è ritenuto un puro (e inutile) esercizio di fantasia. La possibilità di poter prolungare la propria permanenza nella famiglia di origine consente ad una simile attitudine di prolungarsi all’infinito e di arrestarsi, in parte, solo dinanzi al lavoro fisso, possibilmente in una struttura pubblica, pronta a sopportare ed a tollerare un atteggiamento che, comunque, resterà sostanzialmente rinunciatario.
Ma se questa è la chiave per comprendere il tipo di problema che si sta delineando, sembra allora importante muovere la rotta verso una direzione completamente nuova. Occorre una svolta antropologica, capace di provocare un recupero dell’attenzione verso la dimensione progettuale, dove per progetto si intende il semplice ed elementare desiderio di realizzazione personale, direttamente conseguente ad una visione non riduttiva di sé stessi. Occorre che educatori e genitori sappiano restituire al soggetto la passione per una realizzazione che non è mai solamente professionale, ma anche personale ed esistenziale.
Il problema non ha quindi la propria soluzione all’interno dei programmi scolastici, anche se la scuola deve comunque esserne cosciente. Esso non si riduce alla scelta del dare o meno, all’interno della scuola, una formazione immediatamente professionalizzante o, al contrario, fornire gli elementi di una tradizione umanistica comune. Entrambe sono inutili se non concorrono ad alimentare una dignità ed una consapevolezza di ciò che il soggetto è chiamato ad essere, riconoscendo e perseguendo obiettivi realizzativi che non possono essere soppressi.
Una scuola orientata in senso strettamente professionalizzante, presupponendo che l’universo del lavoro abbia in sé, ancora oggi, le motivazioni per bastare a sé stesso e il soggetto non debba quindi dotarsi di un percorso di formazione più ampio, è di fatto semplicemente sprovveduta (sono proprio gli istituti immediatamente professionalizzanti a registrare il tasso più alto di abbandoni). A sua volta, una formazione umanistica che non sviluppi capacità concrete (saper redigere, riflettere, esporre e argomentare, conoscendo quanto è già stato detto, cioè una specifica tradizione di pensiero) finisce con lo scadere nella pura erudizione, diventando così non solo inutile, ma anche fuorviante e dannosa in quanto guarda il dito che indica la luna anziché la luna stessa.
Il recupero della generazione grigia, che ha abbandonato la scuola senza entrare nel mondo del lavoro, transita per il recupero del diritto di ciascuno a costruire e ad edificare. Implica il considerare un tale diritto come un elemento fondamentale e non aggirabile dell’umana esistenza, un aspetto non negoziabile di realizzazione della persona, la sua costituzione deve essere parte integrante del percorso educativo e di formazione. Una società avanzata come l’Italia è profondamente e intimamente collegata ad una cultura della crescita e della formazione permanenti; essa è indissociabile dall’immagine di un soggetto che desidera, e desiderando, costruisce, pone mano all’opera, nella consapevolezza della cultura e della memoria della quale è erede.
Una società che si dimentica di un tale obiettivo, una scuola che non tiene conto di una tale necessità, devono prepararsi ad imbattersi in una quota crescente di indifferenti, fino ad arrivare alle aule vuote.