Il dilemma della scuola – La scuola si trova di fronte ad un dilemma di rilevanza storica, che concerne la risposta da dare alla progressiva caduta di motivazione degli studenti nei confronti degli studi. Da un lato vi è la soluzione prevalente che possiamo definire “accomodante”, e consiste nell’abbassare progressivamente le mete, ridurre il carico di lavoro, concordare le verifiche, dare peso nel giudizio alle condizioni psico-sociali degli studenti, concedere ulteriori chance, aumentare i recuperi; dall’altro si coglie una risposta di segno opposto di tipo “neo-rigorista” che punta a circoscrivere il ruolo della scuola alla sola istruzione liberandosi da tutte le “educazioni” che negli ultimi anni si sono aggiunte, accrescere il peso e la gravità della disciplina scolastica, enfatizzare il carico di lavoro degli studenti, sostenere (si potrebbe meglio dire “armare”) il ruolo del docente con voti e sanzioni, stigmatizzare lacune e inadempienze, selezionare.
Mentre la prima strategia tendenzialmente trasforma la scuola in una sorta di servizio di animazione finalizzato alla cura delle problematiche giovanili, la seconda ritiene di poter ristabilire il principio di autorità e di impegno così come si riscontravano in un tempo passato, precisamente quello precedente al Sessantotto.
A ben vedere, entrambe queste risposte appaiono inadeguate: la soluzione accomodante, con l’intento di “venire incontro ai giovani”, finisce per svuotare l’esperienza scolastica trasformandola in un tempo noioso in cui non accade nulla di interessante, riducendo la cultura a formulette e schemi di dubbio valore; la soluzione neo-rigorista, illudendosi di riesumare un tempo oramai superato, non può che accrescere il disagio degli studenti e la loro avversione nei confronti degli studi, aumentando la dispersione ed i passaggi verso indirizzi di studi ritenuti più facili. Si tratta di un’alternativa fra due visioni, nessuna delle quali si rivela, in pratica, accettabile.
Esse presentano un decisivo elemento comune: considerano indiscutibile una metodologia di insegnamento centrata sull’epistemologia delle discipline, realizzata secondo micro-sequenze orarie di lezioni-esercizi, sulla base di compiti di tono scolastico e non tratti dalla realtà, finalizzati non tanto alla maturazione della personalità dello studente attraverso la cultura quanto a prendere voti. Ambedue assumono come inevitabile la “visione dei due tempi”: prima bisogna studiare, dopo il diploma si potrà applicare nella realtà ciò che si è appreso. Una simile scuola, la cui cifra principale è l’inerzia, non è assolutamente in grado di far fronte alle sfide del tempo presente ed in particolare l’irruzione nel mondo giovanile dell’irrealtà, ovvero dell’estetica dell’apparire e del consumare.
La sfida della iper-realtà – La demotivazione dei giovani allo studio non è sintomo di indebolimento delle capacità intellettive di un’intera generazione, ma trova la sua spiegazione in quel “delitto perfetto” di cui ha parlato in modo convincente Jean Baudrillard: la realtà sarebbe stata sostituita da rappresentazioni fittizie che risultano più interessanti e coinvolgenti rispetto ai contenuti degli studi presentati in modo inerte.
L’iper-realtà, fatta di oggetti, media, informazione, spettacolo, illusione, risulta composta da esperienze intense e coinvolgenti, che popolano il mondo dei giovani e costituiscono un formidabile competitore della scuola. Questa realtà virtuale sollecita l’immersione totale, una finta partecipazione anche a cause che se affrontate realmente sarebbero benemerite, una specie di relazione immediata con tutto e con tutti realizzata tramite l’annullamento di distanze entro uno spazio che tutto ingloba nell’istante.
Da qui l’impressione di una gioventù demotivata agli studi, amorfa di fronte alle sollecitazioni scolastiche, protesa semmai a considerare lo studio come una prestazione volta meramente all’acquisizione del voto e della pagella. Di fronte al pericolo di un “inselvatichimento” della gioventù, esito dell’azione della potente agenzia antieducativa costituita dal mondo dei media e dei consumi, con il loro seducente mito di una vita facile, leggera, piacevole e capricciosa, risulta urgente che la vita scolastica acquisisca la valenza di esperienza culturale, tramite la quale i giovani possano ampliare la propria capacità di visione della realtà, provare il gusto della scoperta e della conquista personale del sapere.
In tal modo, sperimentando la dimensione reale propria della cultura, essi possono divenire consapevoli dei valori della civiltà cui appartengono, desiderare le mete più alte connesse alle proprie attitudini e potenzialità, acquisire una disciplina che consenta loro di perseguirle con convinzione superando le difficoltà che necessariamente si incontrano in tale cammino, così da diventare protagonisti della propria storia personale e capaci di contribuire con la propria azione al bene di tutti.
Viene quindi meno la teoria dei due tempi: la scuola non può limitarsi ad un trasferimento di nozioni, ma deve, tramite l’incontro con la cultura, abilitare i giovani ad entrare positivamente nel mondo reale, ovvero fornendo loro punti di riferimento, rendendoli consapevoli delle loro potenzialità, cogliendo le possibilità di bene, giusto, bello che insistono nella realtà, insegnando loro a connettere il presente con il passato ed immaginare il futuro in modo ragionevole, agendo in esso da veri ricercatori e costruttori di senso.
Ma, per fare questo, così come ci insegna Edgar Morin, occorre superare un sistema didattico che punta ad isolare gli oggetti dal loro ambiente, a separare le discipline, a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e a integrare, per un approccio che aiuti i giovani ad interconnettere le conoscenze separate, uscire dal locale e dal particolare concependo degli insiemi, capace di prolungarsi in un’etica di solidarietà tra gli uomini. Va pertanto sostenuta l’attitudine a organizzare la conoscenza, l’insegnamento della condizione umana, l’apprendistato alla vita e all’incertezza, l’educazione alla cittadinanza.
Da scuola depositaria del sapere a maieuta del reale – Questo nuovo approccio chiede di passare dall’informazione alla formazione, incoraggiando un atteggiamento attivo nei confronti della conoscenza piuttosto che un atteggiamento passivo di ricorso alla mera autorità. Spinge a ritrovare nella realtà, in modo selettivo, il materiale su cui svolgere l’opera dell’educazione.
L’Unione europea si fa portavoce di questo passaggio, specie quando sollecita a considerare come “cultura” ogni apprendimento, qualsiasi sia il modo in cui viene acquisito (formale, non formale, informale), e propone di dotare ogni cittadino di competenze chiave che gli consentano di vivere da protagonista la società della conoscenza.
Le conseguenze di questo cambiamento consistono nel coinvolgimento della comunità nel compito educativo e formativo, e nel superamento dei curricolo formali per optare decisamente per una pedagogia del reale. Per l’Italia, si tratta in particolare di evitare di cadere in una sorta di autoritarismo vacuo, per affrontare l’educazione alla verità e nel contempo l’educazione morale partendo da esperienze che consentono una scoperta personale e quindi una relazione vitale con il sapere.
Ciò richiede un modo di fare esperienza del sapere che consenta alla persona di mobilitarsi di fronte alla realtà, così da poter essere in grado di comprendere, orientarsi e agire. Occorre mobilitare la persona in modo attivo a fronte di compiti-problema così da stimolarne l’autonomia, l’iniziativa concreta, in definitiva il desiderio di apprendere tramite coinvolgimento personale. È ciò che si intende per “competenza”. (1 – continua)