Ho letto volentieri l’ultimo lavoro di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare; volentieri perché ho constatato che si tratta di un saggio molto recensito ma poco letto, in particolare dai miei colleghi, e sul quale dunque le occasioni di confronto sono state per me fino ad ora pressoché inesistenti.
Ho però potuto verificare che invece in rete i commenti “a caldo” si sprecano, e che molti di essi sono negativi. A me pare, invece, che chi lavora nel mondo della scuola difficilmente possa non essere d’accordo con l’analisi, impietosa, ma – ahimè – assai realistica, che la scrittrice torinese conduce sui mali della scuola e soprattutto di coloro che la frequentano, gli studenti, costretti dalle famiglie a dedicarsi a tempo pieno (in teoria) ad una cosa per la quale non nutrono né interesse né, spesso, inclinazione: lo studio “astratto”, o “teorico”, come Mastrocola lo definisce.
È tragicamente vero: nelle aule scolastiche il livello dell’insegnamento/ apprendimento si è notevolmente abbassato; molti dei nostri studenti studiano poco o nulla, e vivono la scuola (sia come luogo fisico sia come istituzione, con gli obblighi che essa comporterebbe) come una imposizione, che sopportano perché non possono fare diversamente (e anche perché è una situazione per loro molto di comodo).
Non intendo qui ripercorrere i passaggi dell’analisi storica e sociologica che la scrittrice compie per spiegare come secondo lei si è giunti a questa situazione; mi sembra però immotivata l’accusa di detrattrice di Don Milani che le viene rivolta proprio sulla base della ricostruzione da lei effettuata: Mastrocola si scaglia non contro don Milani, ma contro il donmilanismo, che lei dimostra essere cosa ben diversa, e deteriore, rispetto alla teoria e prassi pedagogica di don Milani.
Voglio soffermarmi soltanto su due tra le molte provocazioni che il libro contiene, e porre poi quella che a mio avviso è la questione fondamentale che la lettura del saggio fa sorgere ad un insegnante.



La prima. Uno dei tanti elementi che secondo la scrittrice torinese hanno contribuito e contribuiscono a sfasciare il  nostro (ex) sistema scolastico, è l’introduzione in esso delle categorie di “competenza” e “abilità”, che andrebbero a detrimento di quelle che, per rimanere nella medesima terminologia, sono le conoscenze, o nozioni, come si chiamavano un tempo (la triade assume nel libro l’eloquente acronimo di CAC…).  Non sono un’esperta di rilevazioni di apprendimento, test e quant’altro, ma l’esperienza mi pare indichi che anche l’acquisizione di un sapere “astratto, umanistico, inutile” possa essere tradotta in competenze, senza che ciò nulla tolga alla natura di tale sapere, cioè al suo non essere finalizzato ad una qualche immediata abilità pratica.
La mia generazione (e ancor più quelle precedenti) avrebbe saputo sostenere i test Invalsi, Ocse-Pisa, ecc., anche perché ha studiato in un certo modo italiano, latino, greco, filosofia, storia et similia; se oggi i nostri studenti non ne sono più capaci, non credo sia perché gli insegnanti ragionano solo in termini di competenze e abilità, ma perché non ragionano (e operano!) in modo sufficiente e adeguato proprio in termini di conoscenze. Insomma, i test oggettivi sono, a mio avviso, non un nemico, ma uno strumento del sapere, anche di quello umanistico-letterario; ma come tutti gli strumenti possono essere usati in modo sbagliato!
La seconda. Trovo invece ineccepibile e condivisibile tutta la riflessione sulla necessità da parte degli educatori – cioè, in primis, la famiglia! – di aiutare il giovane a scoprire e seguire la propria naturale inclinazione (la vocazione!), che non deve necessariamente essere rivolta allo studio “licealmente” inteso: la licealizzazione forzata di massa, oltre ad essere una delle cause del collasso del nostro sistema scolastico, ha prodotto e produce schiere di giovani infelici, perché non realizzati. Non si vorrebbe mai che una ragazzina di prima liceo scientifico avesse a scrivere in un tema che “Certe volte la scuola è il mondo al contrario: ti sembra che non abbia nulla a che fare con il futuro e con la tua vita”… I talenti sono invece comunque preziosi e devono (dovrebbero) essere accolti e coltivati, a qualsiasi settore dell’attività umana siano indirizzati, proprio nell’ottica della realizzazione, cioè della felicità del giovane, l’adulto di domani. Qui si aprirebbe tutto il problema culturale e politico della valorizzazione dell’istruzione e formazione tecnica e professionale, sul quale non mi soffermo perché già ampiamente e autorevolmente affrontato da queste colonne, e al quale Mastrocola propone una propria personalissima soluzione.



Last, but not least: stante la innegabile verità almeno di buona parte del quadro ricostruito da Paola Mastrocola, quale senso ha ancora il mio mestiere? Perché ogni mattina entrare in classe a parlare di cose – letteratura, grammatica, latino – che sembrano appartenere, per contenuto e forma (il linguaggio verbale), ad un altro pianeta rispetto a quello nel quale i nostri studenti vivono? Per quanto mi riguarda, ci sono di mezzo la vocazione – questo lavoro, e non un altro, è per me – e il fatto che non sempre e non in tutti i ragazzi si registra quell’appiattimento del desiderio e della volontà che purtroppo accomunano i più.
Mi rendo conto che quello che mi muove è la certezza che ciò che faccio e propongo ha comunque un valore, perché risponde al naturale bisogno che l’uomo ha di conoscenza, verità, bellezza; il fatto poi che la scintilla della libertà dello studente si accenda e si metta in moto è fenomeno che, facilitato o ostacolato (oggi molto più ostacolato che facilitato) dal contesto ambientale, in ultima analisi non dipende da me.
L’opera degli amanuensi benedettini, che, in un mondo letteralmente di barbari, ha contribuito in maniera determinante a salvare una civiltà, mi sembra non priva di analogie con le odierne condizioni di lavoro dell’insegnante: certi del valore e della bontà di quanto compivano, i monaci non hanno smesso di copiare manoscritti (che lavoro avvilente, diremmo noi!), pur senza poterne né vedere né prevedere i fondamentali esiti.

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