Perché il nostro paese continua a pagare lo scotto di un’alta dispersione scolastica e, peggio ancora, di oltre 2 milioni e 200mila giovani fra i 15 e i 20 anni definiti “neet” (Not in Education, in Employment or in Training), numero più alto che altrove in Europa? Cosa si può fare?
Per tentare una risposta, vorrei provare a inserirmi per un momento nel serrato dibattito che in questi giorni si è svolto sulle pagine dei giornali intorno al provocatorio libro di Paola Mastrocola: Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare. L’autrice, con la passione e la competenza che le sono proprie, punta il dito contro l’attuale sistema scolastico, mostrando “come e perché lo studio sia compromesso e svuotato”, anche a causa di una ideologia del “successo formativo” che in realtà ha appiattito verso il basso i livelli di apprendimento e ha affermato una nuova pedagogia, che predilige “la scuola del fare, del saper essere, del saper stare (insieme), dello smanettamento collettivo e dell`invasamento tecnologico, non certo la scuola del sapere, delle nozioni (intese come conoscenze), della letteratura e dello studio astratto, teoretico”.
Ma non basta: con altrettanta provocatoria acutezza, la Mastrocola – raccontando il dialogo avuto con un ottimo fabbro, avvilito per la mancanza di apprendisti/”eredi”- rivendica per i ragazzi “la libertà di non studiare”: “La mia personale preghiera ai giovani è che si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no, sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno quarant’anni ci governano e ci opprimono”. È davvero indispensabile, si chiede, che tanti nostri giovani continuino ad andare a scuola per anni e anni senza averne l’interesse, o peggio ancora l’attitudine?
Ho avuto l’occasione, nelle settimane scorse, di fare orientamento per l’iscrizione alle superiori in alcune classi di terza media, e con mio grande rammarico ho potuto constatare che fra i nostri ragazzi è diffusissima l’idea che chi si iscrive ad un liceo è intelligente, chi si iscrive alla formazione professionale non lo è affatto, mentre chi si orienta su studi tecnici o addirittura professionali è un mediocre, portato solo per un aspetto particolare… Insomma, un’idea di intelligenza a senso unico. Ma chi gliel’ha comunicata?
Che l’intelligenza possa esprimersi attraverso molteplici strade e modalità, e che tutto sommato possa essere altrettanto utile al mondo – e dignitoso per la persona – diventare un bravo artigiano o un avvocato, è un concetto ad essi totalmente estraneo. È probabilmente questa la ragione (i dati di questi giorni relativi alle iscrizioni lo confermano) per cui i licei si “gonfiano” sempre più, mentre i tecnici e i professionali stentano, nonostante le pressioni del Miur, delle associazioni di categoria e le nuove possibilità introdotte da alcuni decreti, in particolare quelli che hanno istituito i percorsi di IeFP (istruzione e formazione professionale). È questa la ragione, inoltre, per cui assistiamo nelle superiori al 12% di abbandoni a conclusione del primo anno senza iscrizione all’anno successivo, con un ulteriore 3,4% alla fine del secondo anno…
In sintesi, paghiamo il dazio ad una concezione intellettualistica dell’educazione e della cultura che considera il lavoro manuale – per intenderci quello che ha reso grande l’Italia nel mondo, con le sue piccole e medie imprese artigiane – una forma di subalternità culturale e di arretratezza sociale. È una concezione, questa, che ha avuto la sua investitura ufficiale con l’istituzione della scuola media unica (L.1859/62), che abolì le scuole di avviamento professionale in nome di una pretesa uguaglianza di classe e di opportunità per tutti, senza tenere conto che, come diceva Aristotele, “non c’è ingiustizia più grande del rendere uguali cose che sono diseguali” …Non è forse più ragionevole, poiché tanti giovani imparano meglio dedicandosi ad attività pratiche, offrire loro la possibilità di percorsi idonei a sviluppare talenti e attitudini diverse, magari introducendoli progressivamente al lavoro?
Nei giorni scorsi, sempre nell’ambito del già citato dibattito, è apparso un articolo di Ferdinando Camon su Avvenire (“Non studiare non va bene”, 23 febbraio 2011) che, riportando il dialogo avuto con un “ottimo” posatore (felice perché “arrivato” ed economicamente appagato, ma disinteressato a tutto quanto accadeva intorno a lui) rispondeva così alla mia domanda (e alla Mastrocola): «non si può vivere senza interrogarsi sulla vita, non si può stare in una società senza sapere come funziona, non si può vedere un film come se fosse un fumetto: non è questione di “tenore” di vita, ma di “qualità” della vita. Per questo serve la cultura, cioè lo studio. Lo studio sta al vivente come la medicina al malato».
Ha ragione Camon, è in gioco la “qualità della vita”; questa però – aggiungo io – non dipende semplicemente dall’istruzione, non è determinata dal sapere tante cose. Non è lo studio che apre la mente, così come non è il lavoro che la chiude; non c’è automatismo che dia garanzie, in questo senso. La medicina, per il malato che è l’uomo, non è l’istruzione – e nemmeno il lavoro – ma l’educazione, e questa non è assicurata semplicemente dall’andare a scuola. Perché è l’educazione ciò che fa emergere le domande dell’uomo e il suo “naturale” interesse per la realtà tutta intera, attraverso la proposta di una ipotesi di senso e l’offerta degli strumenti con cui verificarla. Quanti nostri vecchi, pur privi di qualsiasi istruzione ma educati dall’appartenenza alla grande tradizione cristiana, avevano una saggezza, una curiosità e una capacità di comprensione a 360° della realtà che, oggi, per gran parte delle persone è del tutto sconosciuta!
Quello che apre o chiude la mente dell’uomo, dunque, non è il lavorare o lo studiare, ma lo scopo per cui si fanno queste cose, come dimostra bene una lettura attenta proprio dell’esempio portato da Camon. Quando infatti l’orizzonte di significato entro cui questi aspetti sono collocati è meschino (come per il posatore, che guardava solo al proprio benessere materiale, al non avere problemi…), allora la mente si chiude; ma quando è grande, come accade, per esempio, in certi CFP originati da importanti carismi educativi (realtà che possono vantare un successo formativo in termini di occupazione o di rientro nel sistema scolastico superiore al 60%) (1), allora è possibile assistere alla rinascita di giovani espulsi dal sistema scolastico che sembravano destinati ad una vita di fallimenti. Giovani che, grazie ad adulti appassionati al loro destino, frequentando dei percorsi di formazione professionale (panificatori, ristoratori, acconciatori, pasticceri, etc.), rialzano il capo, iniziano a guardarsi intorno e ad interessarsi alla realtà tutta intera, desiderano diventare imprenditori e partecipano persino a concorsi di poesia… vincendoli!
Tornando, dunque, alla domanda da cui siamo partiti, dovrebbe apparire ora più chiaramente qual è la sfida che ci attende: non solo riproporre – come propone la Mastrocola – una scuola dei contenuti che rimetta lo studio al centro dell’insegnamento, oppure una maggiore possibilità di accedere a percorsi di formazione lavoro, obiettivi entrambi auspicabili; ciò che è necessario, soprattutto, è puntare sull’educazione, favorendone la libera intrapresa per consentire ad adulti appassionati di fare ai giovani proposte “alte” e interessanti; perché i “neet” e i ragazzi “dispersi” sono il frutto, innanzitutto, di una società di adulti che non ha più passione per nulla, e che in nome del comodo e di insensate ideologie ha rinunciato a educare e a far crescere i propri figli.
(1) Questo tipo di percorso formativo si è rapidamente sviluppato dal 2003, passando dai 1.329 percorsi con 23.562 alunni nel 2003/2004 ai 7.642 percorsi frequentati da 150.489 alunni nel 2008/2009, con il numero degli allievi cresciuto di 5 volte in sei anni, anche se con grandi differenze da una regione all’altra: Piemonte, Lombardia, Trentino e Veneto hanno maggiormente investito in questo segmento, le regioni del Centro e del Sud assai meno. Ed è proprio nelle regioni del Mezzogiorno che si registrano le più alte percentuali di dispersione scolastica e di disoccupazione giovanile (dati Isfol).