I bambini mostrano il desiderio di conoscere fin dal primo giorno di prima elementare, quando basta che il maestro si attardi un po’ in attività pensate “perché si conoscano”, magari un bel gioco in cui debbano chiamarsi per nome, che presto qualcuno chiede “Ma quando cominciamo a scrivere?”. Si aspettano di imparare, desiderano capire e quando accade ne sono soddisfatti: “Grazie che mi hai spiegato le divisioni, così le posso raccontare a mio fratello”.
Il bisogno di conoscere spesso si riconosce nel bisogno di dare un nome, di denominare ciò che è nuovo.
Classe terza, grammatica. Stavano lavorando sugli articoli e precisamente sul loro riconoscimento in frasi, per cui la maestra aveva proposto la frase: “incontro Giovanni e lo saluto”. Ha fatto riflettere i bambini chiedendo se c’erano degli articoli nella frase: lo avrebbe potuto esserlo, però avevano imparato in seconda che gli articoli stanno davanti ai nomi, ed era abbastanza evidente ai bambini che questo lo non stava davanti ad un nome, ma a un verbo. Così i bambini hanno concluso che in questo caso lo non era articolo. A questo punto si aperta la domanda di un bambino: “Cos’è, allora?” e la maestra ha risposto senza dire la parola “pronome”: “È come dire incontro Giovanni e saluto Giovanni” allora il bimbo ha detto: “Allora lo è un nome!”
Classe prima, educazione motoria. La prima volta che i piccoli entrano in palestra (è l’impatto con la realtà a destare le domande), vedono degli attrezzi che non conoscono: l’asse d’equilibrio, il quadro svedese… e chiedono: “Cos’è?” “L’asse d’equilibrio” e questo gli basta, intuiscono dal nome e dalla forma, poi ancora chiedono: “Come si chiama, scala?” “No, si chiama spalliera”; “E quello?” “Quadro svedese” , ma siccome questo nome non dice loro gran che (dal nome non afferrano il senso, allora ci provano per un’altra strada), la domanda successiva allora è: “E noi cosa ci possiamo fare?”.
C’è un momento in cui non basta più dare i nomi alle cose, la testa si mette in moto e cerca un senso. Più conosci e più il bisogno di conoscere si apre.
Classe seconda, scienze.Una maestra racconta. “È dalla prima che studiamo le piante, ora siamo in seconda. L’anno scorso abbiamo osservato l’albero nelle varie stagioni, lo abbiamo fotografato; abbiamo osservato la foglia dell’albero e quest’anno, notando le differenze tra le foglie, imparandone i nomi a seconda del margine, della forma… le abbiamo classificate: un bel po’ di nomi nuovi. I bambini mi sono venuti dietro e hanno imparato, c’è grande fiducia in quello che io dico loro, mi danno un grande credito. Solo ora, dopo tutto questo lavoro, l’altro giorno Francesco mi ha chiesto, come “accendendosi”: “Perché proprio in autunno si seccano e cadono le foglie?”. E da qui partiremo per un altro lavoro di conoscenza. Mi ha colpito perché davanti al consueto cadere delle foglie stiamo spesso tutti in modo un po’ scontato. L’approfondire lo studio di un particolare della realtà ha aperto in Francesco il desiderio di capire di più, lui si è “acceso” e la sua domanda di conoscenza più profonda di ciò che vede accadere ha acceso anche me e i suoi compagni”.
Francesco magari lo sapeva già che in autunno le foglie cadono, l’aveva visto, ma continuando a guardare la realtà “succede” il desiderio di capire di più.
Spesso le domande dei bambini vertono sugli avvenimenti naturali e diventano un’occasione di conoscenza in scienze. Un altro aspetto della realtà su cui si concentrano le domande dei bambini è l’uomo. Le domande sull’uomo muovono l’esperienza della conoscenza e poi impegnano nello studio in storia, in scienze, in italiano, in disegno.
Classe quarta, arte. Stiamo imparando a disegnare la persona. C’è una maestra d’arte che guida i bambini attraverso un metodo che parte dall’osservazione attenta e coraggiosa dei volti. È un laboratorio appassionante, che risponde molto al loro desiderio di conoscere, perché disegnare le persone, soprattutto i volti, è difficile. La maestra ha raccolto i brani della conversazione conclusiva con la maestra d’arte: “Mi è piaciuto imparare le proporzioni giuste, le misure del nostro volto, per me sono state cose nuove. Ho imparato a fidarmi di quello che osservo, ho imparato, per esempio, a fare i maschi con le ciglia e che se osservo una linea sul volto di chi sto disegnando la devo proprio fare, non posso non farla per paura di sbagliare. Prima disegnavo delle persone che non somigliavano tanto a quello che erano, le facevo tutte uguali, tutte magre… L’anno scorso non mi piaceva tanto disegnare, dopo mi è piaciuto perché sono riuscita ad usare le regole e vedevo che queste regole erano vere. Come se prima avessi avuto degli altri occhi. Ho imparato a fare l’ovale del viso e gli occhi, ma il naso e la bocca li faccio ancora come prima e mi vengono tutti uguali. Un disegno che mi è piaciuto molto è stato quello sul quaderno d’italiano, dove ho disegnato il viso di mia sorella Rebecca: l’ho fatto abbastanza bene, anche se non avevo davanti il modello, ma ci sono riuscito perché io voglio molto bene a mia sorella e l’ho chiara “in testa”, anche quando non la vedo; c’entra molto quanto le voglia bene”.
L’ultimo esempio è il più completo. Classe prima, scienze. La maestra decide di portare i bambini in autunno a Montalto, sull’Appennino tosco-emiliano, in un bosco per raccogliere le castagne. Al ritorno a scuola e nei giorni successivi, la classe lavora molto su quello che ha visto nel bosco e su quello che hanno raccolto e portato a scuola. Si soffermano a lungo e non per caso sulla castagna e sulla ghianda, disegnando e osservando le due bucce poi il seme cioè i due cotiledoni e l’embrione. Insieme decidono di interrare una castagna in un grande vaso che sistemano su uno dei davanzali dell’aula; in un altro vaso interrano una ghianda. Qualche mese dopo una bimba, guardando dalla finestra vede che è spuntato un germoglietto: cos’è successo? E la castagna e la ghianda? Portano dentro il vaso ed iniziano ad osservare tutto: estraggono con delicatezza dalla terra i due semi: dalla buccia sale un fusticino da una parte e dall’altra scende una radice. I bambini parlano, dicono quello che sanno e che vedono. Confrontano la forma delle foglie con quelle portate dal bosco appurando che sono proprio un castagno e una quercia e quindi la castagna e la ghianda originari erano proprio semi. Cercando di capire emergono gli elementi della questione: c’è la terra, un seme, l’ acqua, l’aria, la luce… queste parole le dicono i bambini, come traendo delle conclusioni: “Allora se facciamo così, con tutti questi elementi, ecco che nasce una nuova pianta”.
Lorenzo, però, alza la mano e dice: “Io però non capisco ancora come mai seme + acqua + terra + aria + luce messe insieme possano far nascere una nuova pianta”. La maestra a quel punto non può fare a meno di utilizzare la parola “miracolo”, ma subito dopo da una bimba viene una risposta che la stessa maestra riconosce come più aderente ai fatti, e viene ripetuta ad alta voce perché tutti la possano udire. Maddalena dice: “Quello che è accaduto, secondo me, è molto di più della somma delle cose”.
In questo esempio si riconoscono bene i “grandi” protagonisti: i due bambini. Il primo mostra con la sua domanda il suo bisogno di conoscere, e di conoscere veramente, non si accontenta di un meccanismo di funzionamento. Il bimbo chiede, la bambina trova le parole per dire quello che già il bimbo aveva intuito ed espresso nella sua domanda: è accaduto di più della somma.
L’altra protagonista è la realtà, ciò che accade. È accaduto che siano germogliate, una bimba le ha viste, si sono chiesti cosa fosse successo. La domanda nasce dalla meraviglia per qualcosa che è accaduto e lo stare, accompagnati, davanti a ciò che c’era ha dispiegato il loro bisogno di conoscenza come un ventaglio… “Guardiamo bene, confrontiamo le foglie, osserviamo le differenze, diamo un nome (“si chiama seme”), mettiamo in relazione terra, aria, ecc.” fino allo squarcio di quel “di più della somma”.
L’ultimo protagonista è l’insegnante: grande tentazione quella di dire “è un miracolo”, è come quando stai giocando a pallavolo e ti alzano la palla… tu salti per schiacciare… e invece no: quanto è più corrispondente al compito che ci è dato l’accompagnarli nel mantenere aperta la loro domanda, invece che “schiacciarla” con una risposta che forse non capirebbero, ora.