Io credo che su molte cose, anche importanti e fondamentali, degli ultimi interventi pubblicati sul sussidiario si possa dissentire, ma per una volta vorrei provare a mettere tra parentesi ciò su cui non si è d’accordo per sottolineare invece alcuni possibili punti di convergenza.
1. Come sostiene Marco Campione, il Presidente del Consiglio ha gravemente sbagliato nel dire le cose che ha detto sulla scuola pubblica ed ha dato un ulteriore colpo alla credibilità già compromessa – al di là dei loro torti reali, credo – degli insegnanti, di tutti gli insegnanti, secondo la curiosa tesi per cui a scuola si “inculcano” idee tra cui le famiglie sono chiamate a scegliere. Laura Cioni ha spiegato, come meglio non si potrebbe, perché ha sbagliato e penso che anche Cominelli non possa non concordare. E merita solo due righe la promessa-richiesta-speranza di aumentare fino a tremila euro lo stipendio espressa ieri l’altro da Berlusconi. Lungi dall’essere risarcitoria, accresce solo lo sconcerto.
2. È necessario che venga finalmente portato a regime un Servizio di Valutazione Nazionale di cui la misurazione dei risultati di apprendimento è un elemento fondamentale ma non l’unico, perché deve essere accompagnato da una valutazione dell’organizzazione scolastica, del clima relazionale, del livello di diffusione e condivisione della leadership educativa, tutti elementi che influenzano profondamente i risultati. Anche qua mi riconosco pienamente nella sequenza virtuosa di Ichino “autonomia delle scuole, definizione chiara degli obiettivi che le scuole devono conseguire, valutazione ex-post dei risultati ottenuti”, aggiungendo solo “interventi perequativi sulle situazioni di deprivazione”.
Ciò significa che quest’operazione non la si può affidare ad un decreto omnibus se la si vuole seria, realistica e dotata di risorse. Seria vuole dire che, tanto per cominciare, il reclutamento del corpo ispettivo non può avvenire su basi esclusivamente giuridico amministrative (come evidente dagli item dei test di preselezione) per poi passare improvvisamente negli scritti di questi giorni a tematiche addirittura squisitamente disciplinari. Cosa c’entra questo fritto misto con il compito di valutare e formare, sul modello dell’Ofsted inglese? Vogliamo chiedere insieme che si riparta da una corretta definizione della funzione ispettiva e da una dotazione organica adeguata ai compiti? E già che ci siamo, proviamo anche ad escludere che ci possano essere, per una funzione eminentemente tecnica, nomine “politiche”.
Torniamo ora alla pubblicazione degli esiti e alla “graduatoria” tra scuole. Mi pare di capire che, al di là degli abbagli di qualche commentatore, tutti si dica che gli esiti vanno resi pubblici, depurati dei condizionamenti socio-ambientali. Mi pare una linea di consenso preziosa, perché vuol dire condividere anche l’idea che l’Invalsi deve essere messo nella condizione di farlo, perché si tratta di un’operazione tecnicamente non semplice e certamente costosa, ma necessaria.
È in grado l’Invalsi di pubblicare subito gli esiti così depurati? Se sì, lo si faccia subito. Se non del tutto, lo si faccia per quanto possibile e al più presto. Se no, ci dica quali sono le condizioni per poterlo fare. Ma a che cosa serve pubblicare gli esiti così definiti? E come si fa a passare alla valutazione delle prestazioni individuali, che è assai più complicata?
Anche su questo credo forse esistano zone di accordo. Intanto, la necessità che le scuole “peggiori”, cioè quelle con il minore valore aggiunto a parità di contesto, siano oggetto di precise iniziative ministeriali: un intervento ispettivo, la richiesta di un piano di miglioramento corredato di risorse e con obiettivi misurabili in tempi medio-brevi e, in caso di non conseguimento di tali obiettivi, sanzioni che arrivino fino alla chiusura.
Le scuole migliori potrebbero viceversa essere premiate lasciandole poi libere di utilizzare i fondi aggiuntivi nel modo autonomamente ritenuto più produttivo. Credo vadano presi seriamente in considerazione i pericolo di cui parla Anna Alemani , ma secondo me val la pena oggi di provare, anche perché mi pare che l’Italia non possa essere paragonata agli Usa per quanto riguarda l’utilizzo delle prove standardizzate per la misurazione e come punto di riferimento dei curricoli.
Quanto alla valutazione dei singoli docenti, certo l’opposizione degli insegnanti ha radici profonde e non tutte nobili, ma se vogliamo cominciare a superarla forse la chiave sta proprio nel liberarci della logica per cui occorre fare una classifica in cui il “premio” tocca al 25 percento (o al 30, non importa) di chi fa lo stesso lavoro. Un’impresa disperata, foriera solo di immensi conflitti, che cerca di stabilire non se il prof. Rossi è “bravo” o no, ma se è più bravo del 75 percento dei suoi colleghi. Penso invece che occorrerebbe anche qui affidare ad una valutazione individuale obbligatoria il compito di individuare la fascia di chi proprio non è in grado di fare il mestiere di docente e, di converso, di chi è in grado di svolgere funzioni di coordinamento didattico, organizzativo e di sviluppo/ricerca, nella prospettiva della costruzione (rapida!) di una carriera docente. E in questa prospettiva gli indicatori potrebbero certamente anche essere costituiti da elementi di quella che è stata chiamata “reputazione professionale”.
Per questo, nel corso della recente discussione, è stato chiesto in alcune sedi (dall’Andis in particolare, ma non solo) che si utilizzassero le (scarse) risorse prima di tutto per valutare le scuole, poi per sperimentare alcuni indicatori precisamente determinati di professionalità (perché, se non lo sono, i risultati della sperimentazione diventano incomparabili) senza indicare a priori percentuali di premiati. Tale proposta non è stata accettata, opponendo la considerazione che poi si sarebbe fatto all’italiana, come sempre, distribuendo le risorse a pioggia. Può darsi, e anche questo sarebbe stato un risultato della sperimentazione da analizzare. Intanto però si sarebbe avviata una ricerca-azione sulla validità degli indicatori proposti, capace di entrare nel merito e di scardinare per questa via i pregiudizi.
Ma tant’è. Vedremo come andrà a finire, e speriamo che le norme sulla carriera docente escano dai cassetti in cui giacciono, anche grazie ad una battaglia comune perché finalmente si investano risorse sulla professionalità docente come chiave di volta della qualità del servizio pubblico.
Ancora un altro elemento di possibile consenso: le modalità di reclutamento del personale, che debbono essere rese il più possibile omogenee all’interno del sistema paritario, nel senso che ci deve essere una modalità concorsuale (significa affidata a criteri trasparenti e non discriminatori), ma collocata il più vicina possibile a livello della singola scuola o delle reti scuola. Io credo che in un sistema rigorosamente valutato ciò sia non solo possibile, ma necessario, malgrado i rischi reali di clientelismo familistico o di cordata cui questo nostro paese è quotidianamente esposto. Ancora una volta, l’antidoto è una buona valutazione.
E perché l’antidoto non potrebbe invece essere costituito da una sana concorrenza, in un vero e proprio libero mercato dell’offerta formativa, come propone Giovanni Cominelli? Perché – e qui sta il dissenso di malgrado la suggestiva descrizione del suo modello ideale – non mi sembra affatto dimostrato che la “libera scelta” sia la chiave di volta per il miglioramento del sistema. Mi persuadono di più, invece, le tesi sostenute da sempre da Piero Cipollone secondo cui la “libera scelta” da un lato sia di fatto impraticabile – un modello astratto, appunto – e dall’altro non decisivo in termini di miglioramento del sistema formativo.
Anche Norberto Bottani, esplicitamente interrogato sulla questione, ha francamente ammesso nell’ultima conferenza di servizio convocata dall’USR Lombardia che non è nemmeno immaginabile che si possa produrre un miglioramento del sistema grazie a spostamenti di utenza effettuati sulla base della pubblicazione degli esiti di apprendimento. Anche perché i criteri di scelta non sono necessariamente quelli della scuola migliore, ma non di rado quelli della scuola “ben frequentata” o – al polo opposto – della ricerca del diploma facile.
D’altra parte, anche la stessa esperienza del sistema della Formazione professionale in Regione Lombardia mi pare dimostri che la teoria della centralità della domanda deve necessariamente intrecciarsi con le necessità della programmazione territoriale dell’offerta formativa.
Mi si chiederà allora a che cosa possa servire la pubblicazione degli esiti. Ebbene, ci sono ottime ragioni per farlo. Intanto, come dicevo sopra, senza dubbio è necessario per dare le informazioni necessarie al decisore politico; in secondo luogo, per mettere in condizione gli operatori di compiere l’autoanalisi di istituto in termini comparativi; in terzo luogo, per consentire agli stakeholders (l’utenza, il territorio, le aziende) di selezionare i propri “benchmarking” di riferimento e di proporli alla comunità scolastica; e infine per fornire le indicazioni opportune per un serio orientamento scolastico e professionale.
So bene che sulla questione della “libera scelta” le opinioni sono divaricate e il dibattito – lo abbiamo sperimentato – torna sempre al punto di partenza, ma spero non sia necessario concordare sul medesimo modello ideale se si arriva a proporre soluzioni concrete non troppo dissimili, anche per riuscire a spezzare un fronte conservatore che è vasto e composito, rigorosamente “bipartisan”.
A proposito. Si può per favore spiegare ai nostri politici che vanno in TV che le scuole in Italia non sono divise tra “pubbliche” e “libere” ma tra “statali” e “paritarie” comunque tutte pubbliche? L’opinione pubblica è già abbastanza disorientata!