Caro direttore,
Anch’io ringrazio di vero cuore Anna Alemani per l’apertura di orizzonte con cui ha trattato la vicenda dei test. Il rischio del cosiddetto teaching to the test (fare scuola per addestrare ai test) è molto sentito negli Usa, dove concorrono efficientismo e una certa concezione tecnicistica del sapere.
Lo scopo più importante delle misurazioni standardizzate originariamente sarebbe permettere di incrociare i dati di “performance” con i fattori di contesto, in modo da scoprire che cosa favorisce i buoni risultati, e potenziare questi fattori. Nei dieci anni delle indagini Ocse-Pisa il database è stato utilizzato da molti ricercatori internazionali proprio a questo scopo, costruendo nel tempo una mappa di indicatori (non sempre pacificamente accettata) che “spieghino” certe evidenze empiriche. Si è scoperto nel tempo che le risorse economiche o le attrezzature informatiche di per sé non sono fattori di miglioramento, e che l’autonomia delle scuole, la responsabilità degli insegnanti rispetto a metodologie e didattica, l’esistenza di una buona attenzione ai risultati in uscita (da noi semmai il pericolo è che non ci sia nessuna attenzione ai risultati, vedi debiti formativi) incidono favorevolmente (cfr. gli studi di Bishop-Woessmann).
Mi colpisce molto che – a quel che ne so – fra i fattori fondamentali di “riuscita” nessuna ricerca tecnica abbia mai posto quello che dice l’articolista: la fiducia che gli studenti hanno in se stessi, incoraggiata e sostenuta dagli adulti, l’investimento sul proprio desiderio vero (non pilotato). È verissimo! la grande molla che fa esistere come persone è la coscienza della positività di esserci. La “competenza” è innanzitutto un investimento su di sé.
Quanto alla positività di un test per una nazione, ricordiamo lo sforzo dell’Invalsi per mettere a disposizione delle scuole un “metro”, una unità di misura (proprio come il Grand Kilo depositato a Parigi) che consenta alle centinaia di scuole sul territorio di sapere “quanto pesano”. Lo strumento è imperfetto: mancano ancora i valori in entrata per misurare il contributo effettivo della scuola alla crescita, mancano i dati di contesto socioculturale delle famiglie, i dati sono forniti in percentuale e non in “peso”. Ma questo non toglie il merito di dare, in una situazione di perdita di punti di riferimento sui livelli raggiunti come quella italiana e di messa in discussione del valore stesso dei titoli di studio, un punto di riferimento comune a livello nazionale.
Nel mese di maggio anche noi avremo i famigerati test, e la scuola secondaria di II grado farà il primo esperimento (non i suoi studenti, che due anni fa hanno sostenuto la loro prova di 3^ media e sono quindi già corazzati). Che fare? Allenare i ragazzi con simulazioni a tappeto, col rischio che siccome le domande non si ripetono con struttura identica l’allenamento risulti inutile? Oppure – come mi pare più interessante e redditizio – cercare di capire quali sono le competenze necessarie per rispondere alle domande, e potenziare ciò che già facciamo in vista delle competenze (e non dei test)?
La grande sfida nel caso dei test Invalsi prossimi venturi è: gli insegnanti impegnano i ragazzi su certe cose “perché le misura l’Invalsi” oppure “l’Invalsi misura certe cose perché sono importanti e utili”? La cosa è di fondamentale importanza. Imparare a distinguere fra quattro risposte tutte plausibili richiede ragionamento e non ammette automatismi; saper cogliere informazioni implicite e renderle esplicite, integrare fra loro concetti che si trovano distanti fra loro in un testo, è fondamentale per studiare sul libro di storia, di geografia o di diritto, ecc. Saper motivare un ragionamento e una procedura in matematica, confrontare strategie di risoluzione di problemi, saper spiegare perché una soluzione è giusta, congetturare, verificare, significa avere capacità di pensiero logico e di argomentazione. C’è l’ipotesi che si tratti – per la prima volta in Italia – di favorire competenze trasversali non di basso profilo (comprensione, ragionamento), che nessuna riforma può “imporre” agli insegnanti.
Se il teaching to the test ci deve spaventare, se lo stress da test ci deve mettere in allarme, la preparazione dei nostri studenti invece ci interessa. Bisogna quindi andare a vedere che cosa chiedono le prove nazionali e cercare di capire se colgono aspetti fondamentali per la crescita degli studenti, oppure sono appiccicate alla didattica e fanno perdere tempo. Per questo vale la pena andare a vedere soprattutto il Quadro di riferimento appena ripubblicato sul sito dell’Invalsi in veste rinnovata, come pure gli esempi di prova per la seconda classe della scuola secondaria di II grado (http://www.invalsi.it/snv1011/). Le altre classi trovano tutte le prove fatte in passato, i rapporti, le guide alla lettura, i dati relativi alle difficoltà delle domande, e altro ancora.
A questi documenti non va posta la domanda tutto sommato stressante: come preparare gli studenti alla prova?, ma quella che ci coinvolge professionalmente: questi aspetti sono fondamentali, richiedono competenze intelligenti, mi interessano a prescindere dai test?
Ho sentito il bisogno di scrivere queste due righe perché la fiducia nei ragazzi non va disgiunta dalla nostra responsabilità. Allora il messaggio positivo per lo studente che vi si impegna è questo: abbiamo lavorato su queste cose, ti stimo, da come hai lavorato io so che ce la farai. Un messaggio positivo fra noi colleghi è: qualunque sia la situazione di contesto, provo a vedere se in quello che mi viene proposto può esserci un positivo per me e i miei ragazzi.