In un suo saggio di qualche anno fa intitolato Insegnare la letteratura oggi Romano Luperini svolgeva alcune interessanti e criticabili (purtroppo una rarità, al giorno d’oggi) osservazioni. Egli prendeva le mosse dalla constatazione del fallimento di quelli che egli chiama modelli di tipo scientista, particolarmente attivi nell’ultimo quarto del secolo scorso, che “hanno ridotto l’insegnamento letterario a una serie di competenze tecniche e retoriche e che hanno finito per contribuire anch’essi ad allontanare i giovani dall’esperienza vitale della lettura”.



Per questa ragione il critico toscano proponeva di sostituire all’espressione (di derivazione formalistica e strutturalistica) centralità del testo,che“presuppone una certa passività dell’interprete, una sua disposizione piuttosto descrittiva e catalogante che ermeneutica”, quella secondo lui più adeguata di centralità della lettura (a questo proposito rimando alla lettura dell’editoriale di Pigi Colognesi del 7 febbraio) dal momento che “noi non leggiamo un testo per descriverlo, ma per coglierne il significato di verità che scaturisce dal nostro vivo rapporto con esso”.



Come si vede ce n’è abbastanza per tornare a riflettere sull’insegnamento della letteratura, specie in un momento come questo, in cui è facile rilevare quanto essa, per molti dei nostri giovani, rappresenti un esercizio assolutamente estraneo alla quotidiana pratica della vita, una sorta di abitudine marziana, o, se si vuole, primitiva. Forse, anziché prendersela solo con la televisione, varrebbe anche la pena domandarsi quanto l’impoverimento che consegue a questa diseducazione alla lettura dei libri, e perciò della realtà, non sia anche conseguenza del carattere intellettualistico ed elitario di tanto mondo intellettuale ed accademico che peraltro ha sempre amato definirsi popolare.



In un suo memorabile articolo dedicato alle rivolte dell’Est europeo ai tempi di Solidarnosc, Milan Kundera scriveva: “Questo matrimonio felice tra la cultura e la vita, tra il popolo e la creazione, ha conferito alle rivolte centroeuropee una bellezza inimitabile, da cui noi che le abbiamo vissute resteremo per sempre affascinati. Quel che io trovo bello, nel senso più profondo della parola, un intellettuale francese o tedesco lo trova piuttosto sospetto. Ha l’impressione che quelle rivolte non possano essere autentiche e veramente popolari se subiscono in misura eccessiva l’influenza della cultura. È strano, ma per qualcuno la cultura e il popolo sono due nozioni incompatibili. L’idea di cultura si confonde ai loro occhi con l’immagine di un’élite di privilegiati. Per questo hanno accolto il movimento di Solidarnosc con molta meno simpatia di quanto non avessero fatto per le rivolte precedenti. Ora, checché se ne dica, il movimento di Solidarnosc non si distingue nella sua essenza dalle rivolte precedenti, di cui costituisce semplicemente l’apogeo: l’unione più perfetta (la più perfettamente organizzata) del popolo e della tradizione culturale, perseguitata, negletta o calpestata, del paese”. (Un Occidente sequestrato, 1983)

Che fare, dunque perché la poesia, la letteratura possano rappresentare per i nostri ragazzi quella che Riccardo Bacchelli ne Il mulino del Po definiva una resurrezion di morti, e un legger loro la vita?

A questo proposito vi invito a leggere, o rileggere, il primo capitolo di un saggio del 1959 di George Steiner, recentemente ripubblicato da Garzanti, su Tolstoj o Dostoevskij. Sottotitolo: La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito d’amore. Sono le parole che aprono il saggio. Potremmo dire la stessa cosa del lavoro di un insegnante? Direi proprio di sì, tanto più se consideriamo quel che il grande critico aggiunge: poiché le grandi opere d’arte ci attraversano, in modo tale che quando “deponiamo un libro non siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo”, il compito del critico, dell’insegnante aggiungo io, è quello di cercare di comunicare ai giovani la qualità e la forza della nostra esperienza. Steiner sostiene che proprio da questo sforzo di persuasione nascono le intuizioni più vere della critica,mentre la“maggior parte della critica contemporanea appartiene a tutt’altra tendenza.  Criptica, capziosa, esageratamente consapevole della sua discendenza filosofica e della complessità dei suoi strumenti, tende a seppellire più che a elogiare”.  

 

Che cosa ha determinato questa mortificazione della critica (o dell’insegnamento)? La risposta è sorprendente: “Siamo diventati dei relativisti penosamente consci del fatto che i principi critici sono solo tentativi di imporre periodici governi alla intrinseca mutevolezza del gusto”.

 

Il lavoro da fare è dunque semplice e al tempo stesso immenso. Esso ha a che fare con la ragione per cui qualcosa  merita d’essere scritto, letto e tramandato, e qualcos’altro no. Scrive ancora Steiner: “Tutto intorno a noi fiorisce un nuovo analfabetismo, l’analfabetismo di chi sa leggere singole parole, o parole di odio e di clamore, e non sa afferrare il significato della lingua quando si manifesta in tutta la sua bellezza o in tutta la sua verità. ‘Mi piacerebbe credere’, scrive uno dei migliori critici moderni (R. P. Blackmur, The Lion and the Honeycomb, New York, 1955) , ‘che esistano prove inoppugnabili della necessità, una necessità più acuta che mai nella nostra attuale società, che lo studioso e il critico (anche l’insegnante? nda) si dedichino entrambi a un compito particolare: il compito di mettere il pubblico nelle condizioni di una relazione di corrispondenza con l’opera d’arte’”.

Un esempio di cosa sia e come si attivi questa corrispondenza ci viene offerto da un celebre racconto di Anton Cechov, Lo studente. Il giovane Ivan si avvicina a due donne, madre e figlia, che si scaldano al fuoco nel rigido inverno russo. “Fu proprio in una notte fredda come questa che l’apostolo Pietro si scaldò al fuoco”, dice; e comincia a narrare i fatti che accaddero nei giorni cruciali della passione di Cristo. Il racconto del giovane suscita il pianto della madre e il turbamento della figlia. Lo studente si allontana, e pensa.

 

“Se la vecchia si era messa a piangere, non era perché il suo racconto fosse stato commovente, ma perché Pietro le era affine, e perché lei con tutto il suo essere partecipava a ciò che era accaduto nell’animo di Pietro. E la gioia si agitò all’improvviso nella sua anima con tanta intensità che dovette perfino fermarsi un minuto a riprendere fiato, ‘Il passato – pensava – è  legato al presente da una catena ininterrotta di avvenimenti che scaturiscono l’uno dall’altro’. E gli pareva di aver scorto, poco prima, i due capi di quella catena: non appena aveva toccato uno dei due estremi, l’altro aveva vibrato.

E mentre attraversava il fiume sulla chiatta, e poi mentre saliva la collina, guardando verso il villaggio natio e verso occidente, dove il tramonto freddo e purpureo brillava in una stretta fascia, pensava che la stessa verità e la stessa bellezza che guidavano la vita degli uomini nell’orto degli ulivi e nel cortile del sommo sacerdote erano continuate senza interruzione fino a quel giorno, e sicuramente avevano sempre costituito la parte essenziale della vita degli uomini e in generale della terra quaggiù; e un sentimento di giovinezza, di salute e di forza – aveva solo ventidue anni – e l’attesa inesprimibilmente dolce di una felicità sconosciuta, misteriosa, si impadronirono a poco a poco di lui, e la vita gli sembrò meravigliosa, magnifica e piena di un alto significato”.

 

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