Al di là dei risvolti politici, le discussioni di questi giorni sull’insegnamento nelle scuole pubbliche statali e libere tornano a puntare il dito sull’incapacità del nostro sistema di evolversi senza polemiche verso uno scenario diverso dallo status quo. In un certo senso, ci inducono a prendere coscienza di un meccanismo inceppato che blocca la modernizzazione, invece avviata in altri paesi.



Che i fondi debbano seguire l’alunno lo diceva Blair nel White Paper del 2005 prima ancora di Berlusconi, ma anche, ad esempio, la socialdemocrazia svedese che non ha soppresso il pieno sostegno economico ai genitori delle “Libere scuole” introdotto dal governo precedente. Allo stesso modo la Commissione Attali, bipartisan e internazionale nella sua composizione, con la Decision 6 ha voluto suggerire il voucher come rimedio alla scarsa efficienza e mobilità sociale nel sistema scolastico francese. Il buono per la libera scelta della scuola non è, dunque, appannaggio della destra ma una conquista trasversale che si “respira” a due polmoni ormai in molti paesi avanzati.



“Le esperienze internazionali – commentava Blair nell’introduzione al citato White Paper – suggeriscono che le risorse governative che seguono l’alunno (“fair funding which follows the pupil”) assieme ad una buona informazione e al sostegno ai genitori, svolgono un’importante funzione nel portare a successo le scelte educative”. Più avanti aggiungeva: “Le nostre proposte non costituiscono solo il nuovo fondamentale passo della più radicale e riuscita riforma della scuola, esse assicurano anche il cambiamento irreversibile del miglioramento dell’istruzione”. Cameron lo seguirà cinque anni dopo senza spostare una virgola.



La libera scelta (anche economica) delle scuole da parte delle famiglie non è, pertanto, un’amena opzione di parte che disegna i contorni di un problema tutto italiano.  Ci hanno preceduto su questa strada paesi come Finlandia, Regno Unito, Svezia, Danimarca, Olanda, Norvegia, che sono prima di noi nelle classifiche internazionali. Ci troviamo di fronte a importanti realtà nazionali che hanno espresso pratiche educative di successo in un articolato percorso storico, culturale e legislativo. In Finlandia, ad esempio, le scuole con “permesso di educazione” possono ricevere gli stessi finanziamenti delle scuole governative, senza far pagare alcuna retta ai genitori. Così pure, avviene nelle Friskolan svedesi e ora anche nelle Free Schools inglesi.

I posti nelle scuole non governative (independent) sono finanziati dallo Stato all’80-85% in Danimarca e all’85% in Norvegia. Nei Paesi Bassi il 70% delle scuole primarie e secondarie sono indipendenti (non profit) mentre solo il 30% sono gestite dalle municipalità per conto dello Stato. C’è da aggiungere che l’Olanda vanta alti punteggi PISA, bassissimi livelli di truancy (assenze volontarie) e di bullismo, oltre a un’alta partecipazione e consenso da parte dei genitori. Inoltre, fa pensare il fatto che ormai non ci sia più una differenza socioeconomica rilevante, per quel paese, tra famiglie che scelgono scuole statali e altre che optano per le libere.

Diversamente, l’attuale sistema “democratico” attua un’evidente selezione: “Ci sono restrizioni economiche – affermava Blair nel 2005 – per famiglie di livello sociale povero o medio che non hanno i mezzi per scegliere un’istruzione privata o per riscriversi in una buona scuola se sono disillusi da quello che lo Stato offre. Noi crediamo che i genitori dovrebbero avere un potere di indirizzo più grande per guidare il nuovo sistema”. Un sistema, dunque, guidato sempre più dai genitori, accompagnato da un’efficace valutazione e ispezione, che sacrifica il protezionismo statale a favore di standard più elevati non solo di istruzione ma anche, più in generale, educativi.

La messa in discussione palese o latente, parziale o completa del paradigma attuale tocca, oltre a diversi stati europei, anche il Nord America. Nel discorso sullo Stato dell’Unione del 26 gennaio scorso, Obama ha proposto un metodo che è il contrario del centralismo protezionistico: “invece di riversare soldi in un sistema che non funziona abbiamo lanciato una competizione chiamata Race to the Top (che sostiene con grossi finanziamenti le scuole non-profit e, in particolare, le Charter Schools, nda) e ai 50 Stati abbiamo detto: “se voi ci fate vedere i vostri  progetti più innovativi per migliorare la qualità dell’insegnamento e la preparazione degli studenti, allora noi vi faremo vedere i soldi”.

Per trovare il coraggio delle soluzioni bisogna, dunque, guardare fuori: dove la società ha un ruolo attivo e le esigenze di produttività del paese fanno da riferimento. Non bisogna aver paura di un allargamento del concetto di “pubblico” per la scuola ma, anzi, bisogna ridefinirne i nuovi contorni, non più limitati dalla proprietà dello Stato ma dalle caratteristiche e dall’efficacia del servizio.

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