La road map della riforma universitaria prevede una cinquantina di decreti attuativi chiamati a «far funzionare» la legge 240/2010, entrata in vigore il 29 gennaio scorso. Il problema rimane quello dei fondi, dice Andrea Lenzi, docente di Endocrinologia alla «Sapienza» di Roma e presidente del Cun, Consiglio Universitario Nazionale. Ma ci scherza anche su: «pare che questa generazione politica riveli una spiccata propensione al suicidio, visto che vuol passare alla storia come quella che ha tagliato i fondi all’università. Ma in Italia l’università è l’istituzione più vecchia dopo la Chiesa cattolica, e se è sopravvissuta fino ad ora un motivo ci sarà…». Ilsussidiario.net ha parlato con lui dei principali temi sul tappeto, dalla governance alle risorse. Per finire con tre consigli – non richiesti – al ministro Gelmini.
Presidente, qual è lo stato dei decreti attuativi?
Come Consiglio Universitario Nazionale abbiamo potuto esaminare cinque decreti attuativi riferiti alle nostre competenze: quello relativo ai settori scientifico-disciplinari, quello sulle equipollenze con i titoli rilasciati all’estero, quello attinente i programmi europei e nazionali che possono essere usati come titolo per l’abilitazione e per i concorsi di chiamata, quello sul valore minimo degli assegni di ricerca e infine il regolamento sull’abilitazione nazionale. Ce ne sono naturalmente molto altri, da quelli amministrativi a quelli finanziari e dunque non di competenza del Cun, che sono stati trasmessi al ministero dell’Economia.
Dunque è soddisfatto?
Considerando che la legge 240 è entrata in vigore il 29 gennaio, e che è la prima legge di riforma dopo decenni, si può dire che il lavoro procede e che il grado di elaborazione è elevato. Certo resta da fare ancora molto.
E la sua opinione sui cinque regolamenti che mi ha citato?
Possiamo ritenerci soddisfatti, se pensiamo che il Cun è stato richiesto di pronunciarsi sulla scrittura di due decreti, e che sul decreto contenente il regolamento per l’abilitazione nazionale il Consiglio di Stato ha espresso un parere interlocutorio espressamente citando il Cun come organismo di riferimento per l’eventuale valutazione dei curricula dei commissari dei concorsi. Su questo punto il Cun aveva espresso la sua opinione già nel lontano 2008, in tempi non sospetti. Come ho detto anche l’altro giorno al convegno, noi abbiamo messo a disposizione a suo tempo la «cassetta degli attrezzi» per fare la riforma. Ora occorre mettere un po’ a punto il «motore».
Veniamo ai punti salienti della riforma. La sua opinione sulla governance?
Sulla governance avrei auspicato una maggiore flessibilità, ma è anche vero che in Italia abbiamo una novantina di atenei, che si aggirano sui cento se contiamo anche le università telematiche; e so bene che non tutti i rettori avrebbero la forza per condizionare il loro elettorato al punto da stabilire un modello di governance così snello come servirebbe all’università italiana. Diciamo che non amo le leggi prescrittive, perché sarebbe molto meglio giudicare il risultato al posto del processo, ma è anche vero che in talune condizioni è uno strumento necessario…
E sull’internazionalizzazione?
Qui il problema non è la legge, che non si può definire sbrigativamente a favore o contro l’internazionalizazione, ma il fatto che non investiamo nelle risorse che sarebbero richieste dallo stato attuale della nostra società. Nessuno, di quelli che collaborano con me o degli studiosi che io conosco, fa a meno dello studio all’estero. Occorre però che chi va all’estero sia «riportato» in Italia. Il flusso verso l’estero sarebbe un dato positivo se il bilancio finale fosse in pareggio, ma se non si mettono i soldi sul tavolo per la ricerca, siamo destinati ad essere un erogatore di cervelli.
Se parliamo di fondi cominciano i guai. Si pone già il problema del fondo di finanziamento ordinario 2012 e 2013…
Appunto. Difficilmente credo si possa chiedere ad un comparto di accettare una riforma nel momento in cui risultano tagliati i fondi, non c’è speranza di progressione di carriera e manca di fatto un reclutamento credibile. Pare che questa generazione politica riveli una spiccata propensione al suicidio, visto che vuol passare alla storia come quella che ha tagliato i fondi all’università. Anche se sono convinto che non riuscirà a farle il «funerale».
Lo dice per scaramanzia?
Tutt’altro. In Italia l’università è l’istituzione più vecchia dopo la Chiesa cattolica, e se è sopravvissuta fino ad ora un motivo ci sarà. Non soccomberà né a causa di questi politici, né di quelli dell’opposizione. Certo, dispiace per i tanti giovani che fanno parte della presente generazione, ma sono tranquillo per le generazioni a venire… Battute a parte, siamo il paese dove si producono risultati di eccellenza non grazie, ma contro e malgrado le condizioni di sistema, no? Se una classe politica non capisce il valore dell’investimento in ricerca e in alta formazione, dimentica uno degli asset principali che costituiscono la ricchezza di un paese come il nostro.
I suoi tre consigli non richiesti al ministro Gelmini?
Il primo riguarda la formazione. Serve una politica fortissima di orientamento all’interno delle scuole medie superiori per evitare gli abbandoni e per facilitare il placement dei ragazzi. Non possiamo permettere che uno studente arrivi al termine degli studi secondari decidendo negli ultimi tre mesi cosa vuole fare nella vita. Non aspettiamoli. Dobbiamo essere noi ad andare dentro le scuole.
Veniamo al secondo.
Il secondo riguarda le lauree triennali e il dottorato. Obbligherei la pubblica amministrazione ad assumere triennalisti e a dare la dirigenza solo a chi ha un dottorato di ricerca. In tutto il mondo serve il dottorato per diventare capitani di industria e dirigenti dello stato, perché da noi non è così?
E il terzo?
Caro ministro, la ricerca scientifica universitaria non è solo quella che produce un bene strumentale, il brevetto o lo spin-off – che restano sempre importantissimi. No, la ricerca in università è prima di tutto un grande, ineliminabile fattore di progresso educativo. La nostra popolazione studentesca è ancora di buon livello, perché i nostri studenti quando sono laureati sono ancora un prodotto straordinario. Fino a quando?