Dopo il maxi risarcimento cui è stato condannato il Ministero della Pubblica Istruzione dal Tribunale del Lavoro di Genova il 25 marzo scorso per la mancata stabilizzazione di quindici lavoratori precari della scuola, c’è stato una sorta di malsano compiacimento nell’accoglimento della sentenza da parte dei sindacati e di tutti quei precari che si trovano più o meno nelle stesse condizioni, cui hanno fatto eco i mezzi di comunicazione; come se quei 500mila euro che il Ministero della Pubblica Istruzione dovrà risarcire non fossero soldi di tutti. Soprattutto dei precari.
La politica, da parte sua, ha ribattuto subito alla notizia ricorrendo cinicamente ai ripari per evitare che il maxi risarcimento si estenda a tutti coloro che avrebbero dovuto meritare la stabilizzazione e che, ovviamente, sono già pronti a presentare ricorso.
Anche questo episodio ha dimostrato che, quando si parla dei precari e, in particolare, di quelli che lavorano nella scuola, l’unica preoccupazione dei mass media è dare voce all’acerbo scontro politica-sindacati che va avanti, da sempre, a colpi di ricorsi su tutti i temi che riguardano il mondo del’istruzione. Per esempio sabato ho letto la lettera di una precaria che aveva persino dimenticato quanti ricorsi aveva fatto!
Sotto i riflettori dei mezzi di comunicazione i supplenti vengono menzionati come un esercito di 500mila precari, affamati di punti, assetati di supplenze, sempre pronti a scalare altissime montagne chiamate graduatorie. Allo stesso modo politica e sindacati si occupano quasi solo di contarli, di inventarsi una graduatoria che riesca a farli scorrere più velocemente o a reclutarli in modo diverso. Insomma i precari non vengono mai presentati come persone ma come numeri, non come insegnanti ma come “tappa-buchi” in un periodo variabile che va da settembre a giugno e che in estate (se non prima) tornano puntualmente disoccupati. Questa è la vita di chi lavora nella scuola e che, per la lunga tradizione che si ritrova alle spalle, viene chiamato “precario storico”.
Una volta la parola “precarietà” veniva usata da poeti e filosofi come sinonimo di “effimero” per connotare la breve durata di tutto ciò che ci circonda e sottolineare che la vita corre e s’arresta un’ora (Petrarca). Oggi, invece, viene utilizzata per indicare quella condizione esistenziale di ogni lavoratore che non ha un contratto a tempo indeterminato o che non è di ruolo, come si dice in gergo scolastico. Proprio contro questo stato di cose sabato scorso i precari sono scesi in piazza per farsi sentire, soprattutto da coloro che li chiamano, con un eufemismo, lavoratori flessibili. Come sempre i mass media hanno ripreso questa manifestazione per alimentare la polemica e accendere lo scontro.
Fin qui una faccia del precariato. Ciò che, invece, nessuno riporta né racconta sono le giornate intere che l’insegnante, seppur precario, trascorre a scuola, facendo il suo lavoro e compiendo i suoi doveri. Quando questo professore si mette in cattedra dimentica sia i punti, sia i ricorsi sia le graduatorie perché ha nella mente e nel cuore solo una cosa: lo sguardo pieno di interrogativi degli studenti che si trova quotidianamente davanti. Per riprendere queste belle esperienze che nascono in una classe non ci sono mai telecamere; dei bei rapporti di fiducia e di stima che si stabiliscono tra docenti e discenti non scrivono i giornali. Tuttavia da queste giornate nascono romanzi come Bianca come il latte, rossa come il sangue di Alessandro D’Avenia, in cui il protagonista è proprio un supplente – descritto come uno sfigato al cubo perché sostituisce un professore (che già di per sé è uno sfigato) e poi lavora portando sfiga ai colleghi per poterli sostituire – che in un normalissimo giorno di scuola riesce a svegliare l’alunno-tipo da una ripetitiva vita fatta di scuola-calcetto-Ipod, cui al massimo potrebbe aggiungere Facebook. Questa è l’altra faccia del precariato, quella più silenziosa ma che porta maggior frutto.
Viaggiare, cambiare scuola, zona, abitudini ed età degli studenti è parte della vita precaria di un supplente che solo con questa “gavetta” può aprire la sua mente, fare esperienze e lanciare sé stesso e i suoi alunni verso la sfida educativa.