Continua la riflessione di Dario Nicoli sul tema delle competenze. Il primo articolo è stato pubblicato su ilsussidiario.net il 29 marzo, il secondo il 6 aprile.
Scuola come comunità di apprendimento – Una scuola in grado di fare ciò è definibile non come burocrazia né come organizzazione di servizi, bensì assume i caratteri di una comunità di apprendimento che è tale quando fornisce a coloro che vi abitano una prospettiva unitaria e, in modo particolare, di porre l’enfasi sul processo più importante che accade al suo interno, ovvero la relazione educativa come sollecitazione delle qualità umane dei giovani, mettendo in moto il loro desiderio di sapere e muovendosi insieme lungo una pista di ricerca e di scoperta.
L’organizzazione formativa intesa in senso comunitario consente la fluidità e la continuità dei processi di apprendimento e di maturazione. Ciò richiama i requisiti delle learning organizations secondo la regola dello “svilupparsi apprendendo”, mobilitando non solo le abilità cognitive, ma anche quelle intuitive, emozionali, pratiche e sociali.
Tale modello spinge le scuole a rimodellare continuamente la propria materia che è costituita da un pensiero creativo in grado di far emergere continuamente nuove strategie. Ciò richiede di promuovere corsi di azione sempre nuovi, abbandonando l’enfasi eccessiva sugli obiettivi che spesso finiscono per diventare camicie di forza, per far sì che le persone capiscano da sole qual è l’obiettivo adeguato per ogni situazione (gli obiettivi “emergono” attraverso il processo) e quali sono i limiti da evitare.
I principi di questo modo di organizzare la comunità di apprendimento sono: inserire l’intero nelle singole parti (aree disciplinari, tecniche, ruoli…) puntando alla ridondanza delle funzioni (ogni docente non è solo esperto di una materia, ma anche membro di una comunità di apprendimento e animatore di situazioni di apprendimento dal carattere olistico), spingendo gli individui ad accettare le sfide indipendentemente dalla loro natura ed origine; perseguire la differenziazione e la varietà necessaria puntando a far sì che le competenze e le capacità necessarie siano possedute dal gruppo e il singolo sia multifunzionale; adottare il minimo di regole per garantire la libertà di auto-organizzazione, evitando che i dirigenti diventino “progettatori di tutto” per essere guide; imparare ad apprendere, evitando le ricette ma promuovendo atteggiamenti mentali aperti e creativi.
Occorre che l’organizzazione-comunità non cada nella routine, neppure in quella “progettuale”. Essa deve cercare le novità ed aprirsi agli eventi potenzialmente formativi, anche mettendo in discussione pratiche consolidate quando necessitano di rinnovamento.
Va ricordato che il fattore identitario, se non è continuamente “incarnato” nella vita della comunità, può trasformarsi in un mero discorso retorico, senza che ne fluisca una linfa vitale in ogni ambito della vita interna. I processi organizzativi tendono al raffreddamento, i sistemi tendono all’entropia (perdita di energia) e ciò accade specie quando dominano processi di inerzia che replicano il già noto.
Il fattore che sta al centro dell’identità e nei suoi valori va rinnovato nella vita quotidiana dell’organizzazione: esso è in tal modo convalidato ogni volta che gli allievi apprendono, i genitori partecipano, gli insegnanti traggono soddisfazione dal loro lavoro, il contesto riconosce l’importanza del servizio prestato. Va considerato pertanto il pericolo di cadere nell’eccessiva progettualità che porta a spostare l’attenzione dagli studenti al successo del progetto. Anche in tema di qualità, non va costruita una “organizzazione di carta”, ma una realtà della cultura come esperienza, scoperta, cammino verso il sapere che si rinnova continuamente traendo insegnamento dalle proprie pratiche migliori, aperta agli eventi che portano novità buone.
La comunità di apprendimento richiede un’opera di protezione a carico del responsabile, un equilibrio tra apertura e conservazione del suo stile peculiare, della sua storia di entità che cresce con le persone che via via ne sono parte.
Va posta attenzione affinché gli insegnanti non siano oberati da troppi impegni, ciò che viene ritenuto uno dei principali impedimenti per il realizzarsi di una vera comunità educativa: non tutto quello che è possibile deve essere fatto, occorre che sia anche conforme alla sensibilità del contesto che può respingere anche idee buone se le avverte estranee al proprio stile.
Va perseguita e continuamente migliorata la distribuzione dei carichi di lavoro, in modo da dare più tempo e spazio al “fare comunità”. Vanno ridimensionate fino ad un livello “giusto” le tendenze alla proceduralizzazione dei processi, che rappresentano la forma attuale delle logiche di controllo e di omologazione che provengono da varie strutture esterne ma anche interne (è il caso della qualità).
Non tutti gli spazi ed i tempi vanno riempiti, perché occorre anche lasciare aperte le porte ad eventi inattesi ed idee non scritte nei progetti e nei documenti programmatici. Si può dire, per certi versi, che il nuovo può emergere dal vecchio e che la routine può evidenziare per contrasto un fattore imprevisto che merita di essere preferito al comportamento iterativo. Un’organizzazione-comunità che lascia spazi per eventi non previsti sa vivere l’attesa, coltiva il senso di privazione ed educa alla meraviglia.
Vanno ridotti all’essenziale i progetti cui la struttura partecipa, preferendo solo quelli che consentono di innovare la didattica ordinaria ovvero concorrono in modo concreto e riscontrabile al maggiore successo formativo degli studenti ed alla soddisfazione degli insegnanti. Diverse indicazioni che derivano dalle nuove teorie costruttivistiche peccano di un limite di eccessività: si può esagerare anche in idee e proposte in sé buone, ma deleterie se finiscono per soffocare la giusta fisiologia dell’ambiente di apprendimento.
Il piano formativo e le unità di apprendimento – L’attore principale del processo formativo è costituito dal gruppo/ comunità dei docenti aggregati sia per assi culturali/ aree professionali sia per consigli di classe. La centralità della comunità di apprendimento consente di svolgere i passi indispensabili per una didattica per competenze: aggregare le discipline per assi culturali e identificare i “nuclei portanti” del sapere; scegliere un approccio misto, che alterna – in modo intelligente – lezioni, compiti, esperienze; sospendere il giudizio e incoraggiare il cammino, tollerando anche incertezze o errori purché vi sia dedizione e impegno; seguire ciò che l’esperienza ci ha insegnato: aspetti che sollecitano la curiosità, errori da evitare, variazioni che richiamano l’attenzione, momenti in cui è possibile chiedere rigore e “disciplina”; evitare la dispersione del tempo e la noia; sollecitare gli studenti a proporre pubblicamente l’esito del proprio lavoro.
Questo modo di fare scuola richiede un quadro di riferimento unitario dell’équipe/ consiglio di classe circa le esperienze che connotano il percorso formativo dell’anno: da qui la necessità di delineare un Piano formativo, uno strumento che rappresenta le esperienze che, nel corso dell’anno, sono in grado di suscitare un rapporto degli studenti con il sapere in termini affettivi (curiosità, legame, fascino), concreti (utilità, scoperta) e cognitivi (padronanza) e di sollecitare l’identificazione con la scuola a partire dallo stile delle esperienze nelle quali si è coinvolti. Tali esperienze (intenzionali e programmate, quindi elaborate sotto forma di unità di apprendimento) prevedono un legame ed un’intesa tra le diverse discipline al fine di delineare un piano di lavoro comune in grado di perseguire effettivamente le mete educative, culturali e professionali dichiarate.
Occorre trovare un’intesa comune tra scuole dello stesso indirizzo e dello stesso contesto intorno alle evidenze delle competenze, così da garantire univocità di riferimenti e trasparenza delle certificazioni. Per fare un esempio, le evidenze della competenza “consapevolezza ed espressione culturale” con riguardo alle dimensioni storica e sociale possono essere così formulate:
– Collocare fatti ed eventi nel tempo e nello spazio, in dimensione sincronica e diacronica, riconoscere gli elementi fondanti delle civiltà studiate e la loro evoluzione, misurare la durata cronologica degli eventi storici e rapportarli alle periodizzazioni fondamentali.
– Selezionare, confrontare e interpretare informazioni da fonti e documenti di varia origine e tipologia (reperti di epoche diverse, documenti scritti, risorse in rete,…).
Individuare i possibili nessi causa-effetto, cogliendone il diverso grado di rilevanza.
– Ricercare e individuare nella storia del passato le possibili premesse di situazioni della contemporaneità e dell’attualità. Riconoscere il valore della memoria delle violazioni di diritti dei popoli per non ripetere gli errori del passato. Individuare le tracce della storia nel proprio territorio e rapportarle al quadro socio-storico generale.
– Interpretare i rapporti tra i fenomeni storici e il loro contesto sociale, scientifico e culturale, con particolare riferimento all’evoluzione della tecnologia e alla reciproca interazione tra questa e la dimensione sociale.
– Individuare il ruolo che le strutture organizzative della civiltà (familiare, sociale, politica, economica) hanno nella vita umana e il rilievo delle dimensioni religiosa, culturale e tecnologica, analizzarne le trasformazioni nel tempo e le diverse configurazioni nello spazio geografico. Leggere e comprendere indagini e sviluppare percorsi di ricerca demografica, con l’utilizzo degli strumenti e della metodologia appropriata.
Un’intesa relativa alle evidenze delle competenze, ed ai livelli tipici di padronanza, consente di sviluppare in modo ordinato l’autonomia delle scuole e nel contempo il necessario rapporto di solidarietà e sussidiarietà che si instaura tra di esse, evitando sia l’omologazione che uccide la cultura sia il caos che impedisce una corretta interazione tra gli attori del sistema educativo.
L’unità di apprendimento (Uda) costituisce la struttura di base dell’azione formativa; insieme di occasioni di apprendimento che consentono all’allievo di entrare in un rapporto personale con il sapere, affrontando compiti che conducono a prodotti di cui egli possa andare orgoglioso e che costituiscono oggetto di una valutazione più attendibile.
Possiamo avere Uda ad ampiezza massima (tutti i formatori), media (alcuni) o minima (asse culturale). Essa prevede sempre compiti reali (o simulati) e relativi prodotti che i destinatari sono chiamati a realizzare ed indica le risorse (capacità, conoscenze, abilità) che egli è chiesto di mobilitare per diventare competente. Ogni Uda deve sempre mirare almeno una competenza tra quelle presenti nel repertorio di riferimento.
Il criterio di fondo cui riferirsi è la possibilità di sollecitare i talenti dei giovani e di stimolarli alla ricerca, a prendere il cammino. Occorre insegnare per compiti con consegne chiare e stimolanti, variare le situazioni di apprendimento ed il modo di implicazione con gli studenti, puntare talvolta sullo stupore e sul contrasto con il punto di vista usuale. Va evitata la pratica tesa a riversare sugli interlocutori quantità rilevanti di nozioni e regole, per sostituirla con l’intento di sollecitare curiosità, definire un percorso di studio, fornire strumenti e stimolare la riflessione e la strutturazione del sapere acquisito. In questo modo, si impara lavorando.
Il focus della competenza è pertanto posto sull’evidenza dei compiti/ prodotti che ne attestano concretamente la padronanza da parte degli allievi, valorizzando così il concetto di “capolavoro” che viene esteso anche agli assi culturali e alla cittadinanza. È il significato del criterio della attendibilità: con essa si intende che solo in presenza di almeno un prodotto reale significativo, svolto personalmente dal destinatario, è possibile certificare la competenza che in tal modo corrisponde effettivamente ad un “saper agire e reagire” in modo appropriato nei confronti delle sfide (compiti, problemi, opportunità) iscritte nell’ambito di riferimento della competenza stessa. (3 – continua)