L’imminenza delle prove Invalsi 2011, che nel corso del mese di maggio rileveranno lo stato degli apprendimenti in italiano e matematica di una fascia importante della popolazione studentesca (seconda e quinta classe della scuola primaria; prima e terza classe della scuola secondaria di primo grado, coincidente con la prova nazionale dell’esame di Stato del primo ciclo; seconda classe della scuola secondaria di secondo grado), oltre le incombenze che queste misure costituiscono sotto l’aspetto puramente organizzativo, richiama un tema di natura metodologica attinente al rapporto tra insegnamento e apprendimento, sul quale vale la pena riflettere.
Le prove, infatti, correttamente intervengono sui livelli di apprendimento dei ragazzi allo scopo di “effettuare verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti” (L.176/2007). Il nesso fatto risaltare dalla circostanza del monitoraggio è tra ciò che gli alunni sanno o credono di sapere e il cambiamento che in essi produce tale contenuto, se afferrato e assimilato nel modo giusto (conoscenza).
In fondo la conoscenza è un processo di adesione alla realtà che non ha alcuna utilità, se non di farcela comprendere meglio. E la comprensione della realtà (storica, matematica, linguistica, ecc.) è lo scopo dell’educazione, perché è quel fattore sintetico che rende presente l’attitudine al giudizio, senza il quale non esiste il soggetto e nemmeno l’oggetto. Conoscenza e giudizio in sostanza coincidono: mediante la “grammatica dell’assenso” (per citare Newman) l’oggetto che si mostra in prima istanza ad una certa distanza dal soggetto, può essere scoperto o riscoperto nelle sue caratteristiche fondamentali (le sue ragioni) ed entrare nello spazio del soggetto come elemento costitutivo della sua stessa esistenza.
È questa la dinamica che coinvolge ogni essere umano nell’esperienza dell’amicizia e dell’innamoramento, cioè quando l’altro entra a fare parte dell’“io” non perché posseduto fino all’annullamento, bensì guardato e compreso per ciò che è, per la sua finalità intrinseca. La conoscenza si pone allo stesso livello, perché presuppone interesse e simpatia verso ciò che si intende abbracciare con tutta la propria personalità (implica una fatica sempre ripagata). La domanda dei ragazzi: “A che cosa serve tutto questo?”, può sembrare brutale, se formulata nella maniera più istintiva. Tuttavia nasconde una grande richiesta di significato, cioè di comprensione del rapporto tra sé e l’esistente, inteso come tutto ciò che si può manifestare davanti ai loro occhi: lo studio, l’affetto per una persona, un accadimento imprevisto.



Ritorniamo alle prove Invalsi e al loro contesto per chiederci fino a che punto nella scuola possa oggi realizzarsi il passaggio dalla pura e semplice constatazione della realtà al giudizio su di essa che ne rappresenti tutte le dimensioni dalla quale è costituita. Pensata originariamente come luogo in cui la tradizione culturale del popolo potesse trasmettersi alle giovani generazioni attraverso l’esercizio graduale del giudizio (dalla prima alfabetizzazione all’adempimento della facoltà critica), la scuola europea (italiana in particolare) subisce l’impoverimento indotto contemporaneamente dalla statalizzazione del suo assetto e dalla riduzione del lavoro che vi si compie a funzione sociale (poco più che un servizio, per quanto importante, come i trasporti, la comunicazione, la rete energetica). La professione docente in questo quadro è assimilata a quella di chi esercita compiti di natura sociale piuttosto che culturale. Al presente è molto richiesto, anche dalle famiglie, quello della preservazione del quadro di valori e doveri formali inscritti nella categoria della “legalità”.
La centralizzazione del sistema educativo non paga, tuttavia, come dimostrano i confronti internazionali, rispetto ai quali la scuola italiana si è dimostrata per lo più in ritardo nella preparazione dei giovani. Laddove i parametri Ocse sono stati raggiunti, il merito è da attribuirsi al dinamismo di scuole (dirigenti e insegnanti) che hanno saputo esercitare al meglio la capacità di muoversi in autonomia proprio nei confronti di un’ingombrante burocratizzazione.
Di conseguenza, viviamo dal punto di vista del sistema scolastico nello spazio del paradosso, perché si vorrebbero compiere percorsi di personalizzazione dei contenuti disciplinari (vedi prove Invalsi) senza che siano messe in discussione le coordinate culturali che ne impediscono la compiuta effettuazione. Si dimentica, per una scelta di comodo, che la persona dell’alunno può essere accesa di interesse per un oggetto se lo vede fatto risaltare nello spazio della persona del docente che lo propone alla classe. I documenti ministeriali sfiorano il problema, senza risolverlo, quando accennano ai “contenuti di apprendimento”, presupponendo nella formulazione in “didattichese” che le materie che si insegnano a scuola sono oggetti di conoscenza nella misura in cui diventano fonte di apprendimento, ovvero di studio critico e appassionato.



Il paradosso nel quale ci troviamo (tutto l’ambiente scolastico è paradossale: basti pensare al fenomeno dell’aumento della voluminosità dei libri di testo a fronte di un continuo appello alla essenzialità dei curricoli) può essere tuttavia un’interessante occasione di ripresa del senso stesso del fare scuola da parte di una soggettività adulta che entra in campo per assumersi la responsabilità di comunicare il proprio modo di rapportarsi a tutta la realtà. Questo è il punto: la libertà di educare (in questo consiste l’assunzione di responsabilità verso l’impresa-scuola da ri-costruire ogni giorno) è oggi più che mai un metodo di lavoro che si può realizzare subito, e non tanto un orizzonte che attente chissà quale condizione per delinearsi.
Alla domanda di apprendimento che abbiamo visto essere tipica della situazione attuale, in cui sono saltati tutti i consueti parametri di riferimento (i programmi, l’organizzazione, la disciplina) si risponde facendo ricorso ad una soggettività matura che non delega a qualche meccanismo esterno, magari una didattica aggiornata con le nuove tecnologie, il compito che l’attende. L’apprendimento è possibile dentro un rapporto vivo tra chi propone un percorso nella realtà attraverso ciò che insegna e chi lo verifica come buono e valido per sé.
In questa prospettiva, che meriterebbe di essere documentata più ampiamente, sono recuperati e rilanciati tre fattori sostanziali dell’azione educativa che possono esercitare anche un ruolo di innovazione nell’attuale fase di cambiamento di alcuni nodi del sistema di istruzione.
Anzitutto il valore della tradizione come insieme dei significati sui quali è stata costruita la forma di convivenza della comunità, che nella scuola non può essere semplicemente richiamata, ma occorre sia rivissuta come ipotesi di senso che attraversa tutta l’attività scolastica, dai curricoli di studio alla realizzazione di una piena parità scolastica.
In secondo luogo, il rapporto tra materie di studio e discipline scolastiche, da riproporre continuamente perché il dato da apprendere (la “materia”) richiede un metodo (“disciplina”) che tenga conto della specificità dell’oggetto e della capacità di chi apprende di tenere il passo della realtà che si mostra e si approfondisce nella sua unitarietà.
In terzo luogo, il fattore-scuola inteso come insieme di condizioni spazio-temporali che non devono essere date per scontate o dimenticate, ma abbracciate con la stessa intensità con cui si guarda al più piccolo elemento che rende la scuola un ambiente vitale; non solo e non tanto perché obbligatoria e formativa (almeno fino ad un certo punto), ma perché corrispondente ad una sfida che nel paragone continuo sviluppa la personalità.

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