Nel capitolo “Il Dio dalla chiave d’oro” della sua Autobiografia, Gilbert K. Chesterton presenta la figura di padre O’Connor, l’uomo che lo condurrà alla conversione e che ha non pochi tratti del famoso padre Brown. Quando racconta del momento della loro prima conoscenza, riporta un sapido aneddoto che aiuta molto a capire che cosa va inteso quando si parla di natura e di utilità del sapere.
Una sera, in una riunione amichevole, padre O’Connor sconvolse Chesterton con una precisa, particolareggiata e, si potrebbe dire, tecnica conoscenza dei disastri che specifici delitti, tradimenti e comportamenti depravati e corrotti sono in grado di produrre nelle vite delle persone. Conoscenza non teorica, ma così partecipata che la sua controfigura letteraria, padre Brown, potrà rispondere a chi lo interrogava sulla sua sagacia nel risolvere casi polizieschi dicendo di aver capito chi era l’assassino avendo lui stesso, nel proprio cuore – non fortunatamente con le sua mani – compiuto gli stessi crimini. La testimonianza di padre O’Connor colpì così tanto lo scrittore, ancora lontano dalla fede ma conscio del male possibile nella vita (alla domanda “chi ha convertito suo marito?” la moglie Frances rispose senza indugio “il diavolo”) che qualche ora più tardi Chesterton non potè fare a meno di notare quanto segue.
“Tornati a casa, la trovammo piena di ospiti, e cominciammo a conversare con due giovani studenti di Cambridge, cordiali e sani, che avevano camminato, o erano andati in bicicletta, attraverso la brughiera, secondo lo spirito della sana e vigorosa vacanza inglese. Non erano tuttavia persone che si limitassero alla ginnastica, ma si interessavano di diversi sport e avevano entusiasmo per diverse arti. Incominciarono quindi a discutere di musica e del panorama col mio amico, padre O’Connor. Non ho mai conosciuto un uomo che potesse passare con maggior facilità da un soggetto all’altro, o che avesse una abbondanza più inaspettata di conoscenze, in generale puramente tecniche, sopra qualsiasi cosa. La conversazione s’approfondì presto in una discussione di filosofia e morale. E quando il prete ebbe lasciato la sala i due giovani uscirono in espressioni generose di ammirazione dicendo, con sincerità, che era un uomo notevole, e che pareva sapesse molto sul Palestrina, e sull’architettura barocca, o su ciò di cui si stava allora parlando. Poi vi fu un curioso silenzio di riflessione, alla fine del quale uno degli studenti esclamò improvvisamente: «In tutti i casi, io non credo che il suo tipo di vita sia quello giusto. E’ troppo facile amare la musica religiosa, e cose simili, quando si è rinchiusi in una specie di chiostro e non si sa nulla del vero male di cui il mondo è pieno. Non credo che quello sia il vero ideale. Io ho fiducia di chi entra nel mondo, e affronta il male che v’è in esso, e sa qualcosa dei suoi pericoli. E’ una gran bella cosa essere innocente ed ignorante, ma credo sia molto più bello non aver paura della conoscenza…». A me, che quasi tremavo ancora per i fatti spaventosamente pratici dinanzi ai quali il prete mi aveva messo sull’avviso, questo commento apparve di un’ironia così colossale e schiacciante, che ci mancò poco scoppiassi in un riso sonoro e crudele, lì nel salotto. Sapevo perfettamente bene che, per ciò che si riferiva al satanismo concreto che il prete conosceva e contro il quale combatteva con tutta la sua vita, questi due signori di Cambridge (fortunatamente per loro) sapevano, intorno al vero male, quanto sanno due bambini che vengono portati nella medesima carrozzina”.
Dobbiamo essere sinceri: sulle prime padre O’Connor ci entusiasma facilmente. Come può non piacerci l’uomo esperto, portatore di saperi eminentemente pratici e tecnici, provato dalla vita, rispetto a professorini teorici e saccenti, e per di più di Cambridge (quindi con tutta probabilità relativisti e laicisti…). Però, qualcosa non torna. Padre O’Connor aveva sì una formazione tecnico-operativa, ma poteva essere facilmente una sorta di enciclopedismo nozionistico, un’erudizione coltivata all’ombra del chiostro. E contemporaneamente erano i professorini a perorare la causa di una conoscenza che nascesse dall’entrare nel mondo, dal mescolarsi con le sue contraddizioni e le sue complessità.
Quello che all’inizio potrebbe sembrare una specie di derby tra Competenze, Formazione pratica, Esperienza da un lato, e Discipline, Licealizzazione, Teoria dall’altro, in realtà non lo è. Ma perché padre O’Connor continua ad esserci più simpatico dei due studentelli di Cambridge?
Il punto è questo. La questione si è spostata dal modo con cui si acquisisce la conoscenza (che non è cosa indifferente, ma non è la fondamentale), allo scopo della conoscenza. Per padre O’Connor conoscere le forme del male serve per combatterlo, mentre per i due studenti di Cambridge disquisire di filosofia morale (come di matematica, storia, letteratura?) non è altro che un hobby, al pari del trekking e del cicloturismo, della storia dell’arte e della critica musicale.
Nel primo caso c’è una utilità stringente, nel secondo un gioco intellettuale o una curiosità anche allettante, ma alla fine disinteressata (nel senso del “che me ne frega…”).
Negotium vs otium, quindi? Ho paura che anche così la questione sia mal posta. Nella già citata Autobiografia, qualche pagina prima dell’incontro con padre O’Connor, Chesterton dedica un capitolo ad alcune figure di letterati, pensatori e intellettuali con cui ebbe consuetudine e amicizia. Quando parla di H.G. Wells (che gli appassionati di fantascienza conoscono per essere l’autore de La Guerra Dei Mondi e nientemeno che l’inventore della Macchina del Tempo, e di cui Henry James disse “Tutto ciò che Wells scrive non solo è vivo, ma scalcia”), lo descrive così: “Era così spesso sul punto di afferrare la verità che i suoi movimenti mi irritavano come la vista di un cappello, continuamente trasportato dalle onde del mare verso la riva, che non la raggiungesse mai. Egli credeva, penso, che lo scopo dell’aprire la mente fosse semplicemente di aprire la mente. Mentre io sono incurabilmente convinto che lo scopo dell’aprire la mente, come dell’aprire la bocca, si di richiuderla su qualcosa di solido”.
Di solido, non di squisito. Stiamo parlando di pane – o di bistecche -, non di prelibatezze. Stiamo parlando di una utilità che non è di natura necessariamente economica (anche se ciò che porta benessere di solito inutile non è…), ma strettamente legata alla vita, all’essere di chi conosce (e cioè di chi impara). L’aprire la mente per richiuderla su qualcosa di solido è dunque una operazione “interessata”, in cui io metto in gioco il mio essere, per come è in questo momento e per come sono in grado di percepirlo, nel contesto di tutti i rapporti che in qualche misura mi costituiscono, rapporti tra i quali si inserisce, per un ragazzo tra i sei e i diciotto anni (e in particolare tra i dodici e i diciotto), anche la scuola. Ma non metto in gioco solo il mio essere astrattamente inteso, ma anche – e direi soprattutto – quello che mi aspetto di dover fare nella vita (che per l’adolescente coincide con la domanda drammatica “che cosa devo fare per trovare il mio posto nel mondo…”).
Con un problema, che è il grande, centrale, problema della scuola: che nessuno chiede a me, adolescente, di fare o essere qualcosa di utile. “Preparati”, “Goditi la vita finchè puoi…”, “Stai attento!”. Il rischio è che pochi, o nessuno, mi chiedano di fare qualcosa, si aspettino da me qualcosa che a loro serva davvero. Che qualcuno mi chieda di aver cura di qualcosa, perché ce n’è – davvero – bisogno. Rischio costantemente, io adolescente, di non venir mai richiesto di un lavoro, di una responsabilità, per stare alla quale io debba cominciare ad avere bisogno – davvero – di conoscere qualcosa. Rischio sempre di trovarmi nelle condizioni dello studentello di Cambridge e mai in quelle di padre O’Connor.
Una piccola digressione sul termine “condizione”: non voglio riferirmi solo alle circostanze concrete in cui una persona si viene a trovare, ma anche, e più profondamente, al fatto che avere la fortuna di dover rispondere concretamente alla reale necessità di qualcuno costituisce la conditio sine qua non, il contesto necessario perché si possa acquisire conoscenza (cioè imparare/insegnare). Il lavoro come condizione – e non solo come fine o mezzo – dell’insegnamento/apprendimento.
Alla fine della sua Autobiografia, Chesterton riassume in poche righe quella che chiama la sua dottrina di vita: “Mi interessa in modo speciale il fatto che queste dottrine sembrino tenere legata tutta la mia vita fin dall’inizio, come nessuna delle altre dottrine potrebbe fare. Specialmente sembra che rendano chiari, simultaneamente, i due problemi della mia felicità di fanciullo e del mio ansioso meditare di ragazzo. Essi si riferiscono particolarmente ad un’idea centrale della mia vita; non dirò la dottrina che ho sempre insegnato, ma la dottrina che mi sarebbe sempre piaciuto insegnare. L’idea cioè di accettare le cose con gratitudine, ma non di prenderle senza curarsene”.
Ora (ricevere le cose con gratitudine, e cioè riconoscere che sono date) et labora (curarsene, cioè conservarle, migliorarle, difenderle, e in definitiva strapparle dal nulla). Ai nostri ragazzi chiediamo – davvero – questo?