È proprio il caso di spendere qualche parola chiara sui test, in particolare sui test Invalsi, che stanno per essere “somministrati” alle scuole e che tanti sommovimenti stanno provocando. Difatti, è usuale ripetere che sulla questione della valutazione della scuola cadono ministeri e governi, perché troppi insegnanti non vogliono essere valutati. Trattasi di una mezza verità, perché, per evitare che un ministro cada sulla valutazione – come accadde a Berlinguer – bisognerebbe almeno che le procedure proposte fossero meditate e ragionevoli, in modo da mettere all’angolo le resistenze puramente corporative. Questo non fu il caso del marchingegno scombiccherato proposto da Berlinguer, come non è il caso dei discutibilissimi meccanismi proposti per la recente sperimentazione, come abbiamo avuto modo di spiegare in altra sede. Pensare che non si debba far fronte a resistenze aprioristiche è assurdo, ma quantomeno si dovrebbe evitare che le più elementari obiezioni sorgano anche nelle menti più disattente.
Così, in un clima reso già rovente dal rifiuto opposto da tante scuole alla sperimentazione della valutazione, ci troviamo di fronte all’appuntamento delle prove Invalsi di maggio. E anche in questo caso sono state create le condizioni ottimali per rendere indigesto questo passaggio. Il principale errore sta nell’aver creato un grande margine di ambiguità circa il significato, la portata e le implicazioni di queste prove, ovvero circa il significato, la portata e le implicazioni dei test.
Qui si impongono alcune considerazioni generali. È sconcertante quanto sia difficile discutere razionalmente sui temi della valutazione. Per esempio, attorno ai temi delle valutazioni bibliometriche della ricerca scientifica si sta accumulando una letteratura di notevole consistenza e autorità – prodotta da persone e istituzioni di primo piano in ambito scientifico – che mette radicalmente in discussione la validità di queste procedure. Ultimo, in ordine di tempo, è l’articolo di Douglas Arnold, presidente di una delle massime società scientifiche mondiali (SIAM, Society for Industrial and Applied Mathematics) e di Kristine Fowler, bibliotecaria dell’Università del Minnesota, dal titolo Nefarious Numbers (numeri nefandi).



Ebbene, provatevi a trasmettere questa letteratura agli specialisti nostrani di valutazione, nella speranza di aprire una discussione: la mettono nel cassetto, evitando qualsiasi discussione, salvo menzionarvi, in separata sede, come nemici “fondamentalisti” della valutazione. Qualcosa di simile accade sulla questione dei test. Inutile comunicare rapporti e articoli italiani ed esteri sulla questione, scrivere articoli e rapporti, sollevare aspetti critici, documentare i cattivi effetti prodotti dall’uso massiccio dei test – come ho fatto di recente a proposito dell’insegnamento della matematica in Finlandia (cfr. Il Foglio del 21 aprile) -, discutere i limiti precisi entro cui l’uso dei test deve essere confinato. Gli specialisti della valutazione si comportano ormai come una setta impermeabile alla discussione razionale e totalmente autoreferenziale.
Quel che conduce ad atteggiamenti dogmatici e incapaci di aprirsi alla discussione è l’approccio puramente metodologico. Essere specialisti di valutazione in astratto è un nonsenso. Allo stesso modo, è un nonsenso la didattica metodologica “a prescindere” dall’oggetto cui si applica. Un esempio tipico – che ci ricondurrà al nostro tema – è lo studio delle cosiddette “misconcezioni” in matematica, che alimenta una complessa e vasta casistica delle cause concettuali degli “errori” in cui più di frequente incappano gli studenti. In realtà, chi conosca bene la matematica, sa che l’errore ne è il pane quotidiano, e anzi che la matematica vive dell’errore (si leggano le magistrali considerazioni di Federigo Enriques in materia), che spesso non è errore nel senso comune del termine, ma una premessa concettuale non necessariamente sterile e falsa, in una scienza che tutto è salvo l’assoluta esattezza logica come qualcuno ritiene ingenuamente. Non è possibile diffondersi qui su tale interessantissimo tema – lo faremo altrove – ma, a ben vedere, l’intera storia del calcolo infinitesimale è una storia di “misconcezioni”… una storia mai conclusa e probabilmente impossibile da concludersi.
Secondo Eulero, il calcolo infinitesimale non è altro che il calcolo dei rapporti 0/0, che possono assumere infiniti valori finiti: una simile “misconcezione” gli sarebbe valsa oggi la diagnosi di “discalculico” da parte di qualche psicologo delle Asl e l’assegnazione a un programma didattico differenziato per alunni disturbati. E lo stesso sarebbe successo a moltissimi altri grandi matematici. L’ingenuità sta nel credere che esista una formulazione della matematica definita e codificata una volta per tutte, cui ci si possa riferire come l’assoluta “esattezza”. Poiché tale versione non esiste, ci si impiglia nella costruzione di un “oggetto didattico” inesistente e privo di relazioni con la matematica reale – quella che si è costruita man mano nella storia reale – e in una casistica degna della peggiore scolastica dell’ultimo Medioevo.



Queste considerazioni si ricollegano al tema dei test, e al contenuto di un articolo pubblicato sul Corriere della Sera (21 aprile) dal titolo imbarazzante Nei test dell’Invalsi la matematica sarà “argomentativa” e dal sottotitolo Non solo risposte, ma ragionamenti. In verità, per chi ha qualche competenza autentica di matematica è a dir poco sorprendente scoprire che esiste una “matematica argomentativa”, ovvero quella che si fa mettendo in opera ragionamenti?… E quale sarebbe la matematica “non argomentativa”? Quella che si fa senza ragionare? La matematica a indovinelli? La matematica in cui si risponde a caso? Sarebbe la matematica in cui – dice l’“esperto” intervistato – “se c’hai preso sei bravo, se non c’hai preso buonanotte”. Ma naturalmente questa non è matematica – come non sarebbe storia, geografia o altro – non è neppure nozionismo, è semplicemente una banale lotteria che è difficile venga messa in opera anche dal peggior insegnante, se non con l’uso di test a risposta chiusa che – appunto! – non consentono di capire se la casella giusta è stata contrassegnata a caso oppure a seguito di un ragionamento corretto.
È chiaro allora il meccanismo che ha condotto a una simile assurda invenzione. Per difendersi dalle critiche che vengono mosse ai test, si inventa una categoria insensata, la “matematica argomentativa”. E avvalendosi della innocente incompetenza di qualche povero giornalista, si rovescia la realtà, facendo dei test “argomentativi” qualcosa che supererebbe anche la migliore didattica tradizionale della matematica. Ma, se siamo ridotti – pur di fare i test e di difenderli capziosamente – a metterci nelle mani di “esperti” che non si vergognano di inventare simili categorie, allora siamo già molto avanti sulla via dell’imbarbarimento culturale.
Queste trovate non risolvono affatto il problema centrale, che è notoriamente quello di utilizzare i test per produrre giudizi “oggettivi”. Anche su questo tema sono state prodotte osservazioni a non finire – anch’esse totalmente ignorate, l’aggettivo “oggettivo” viene ripetuto come un mantra – per mostrare che il test, in quanto frutto delle idee specifiche di chi l’ha apprestato ha ben poco di oggettivo. Basta mettersi attorno a un tavolo in più di una persona per discutere i test esemplificati in quell’articolo del Corriere, o i tanti altri proposti, per veder emergere opinioni differenti, persino opposte, circa il loro valore intrinseco e valutativo.



A meno che… A meno che il test non sia rigorosamente confinato alla verifica della presenza di capacità minime – di calcolo, grammaticali, sintattiche, ortografiche – che può essere affidata a quiz a risposta chiusa. Ma non appena si pretende di andar oltre, l’“oggettività” svanisce come fumo al vento. Come può verificarsi la capacità argomentativa di un alunno di fronte a un problema matematico? A meno che non sia estremamente banale e meccanico, anche il più semplice problema matematico si presta a una grande molteplicità di soluzioni. Chiunque abbia provato a proporre un problema matematico a un gruppo di bambini delle primarie, sa che, suddividendo la classe in piccoli gruppi, o addirittura per singoli, si ottengono tante procedure diverse e quel che è davvero utile è stimolare i bambini a confrontare le varie soluzioni trovate, ad aprire una discussione sulle diverse vie seguite, il che può consentire all’insegnante di evidenziare e approfondire i diversi aspetti dei concetti in gioco. Tutto ciò esula completamente dalla dinamica della valutazione cosiddetta “oggettiva” mediante test. Difatti, se il test non richiede soltanto di contrassegnare la risposta esatta ma di esporre dettagliatamente il percorso seguito, non esisterà mai (salvo casi privi di interesse) un unico standard dimostrativo con cui confrontarlo. Si aprirà così la via a una molteplicità di valutazioni della via seguita, che possono anche essere fortemente divergenti, secondo il punto di vista dell’esaminatore. Si ritorna così inevitabilmente a un giudizio non dissimile da quello espresso tradizionalmente con i voti.
Ripetiamolo: nessuno esclude l’utilità dei test per valutare l’esistenza di livelli minimi nelle nostre scuole, e si sa bene quanto questa valutazione sia purtroppo necessaria. Ma quel che è sbagliato, al limite irresponsabile, è attribuire ai test una funzione di valutazione complessiva del sistema scolastico e addirittura di valutazione dell’operato degli insegnanti, mediante la stima del “valore aggiunto” negli apprendimenti (che pena questo riduzionismo economicista…). Ma il rischio è ancora più grave e, quando è stato paventato, non ci si rendeva conto che potesse diventare realtà in pochi mesi. Il rischio maggiore è legato all’introduzione di quel che viene chiamato il “teaching to the test”, ovvero la sostituzione dell’insegnamento ordinario con un’attività di addestramento al superamento dei test.
La critica degli effetti devastanti di un simile approccio è stata ampiamente sviluppata all’estero ed è auspicabile che non vi sia bisogno di riproporla. Tuttavia, quel che sta accadendo in questi giorni dimostra a quali esiti devastanti si stia arrivando. Il mercato dei manuali scolastici è di fronte a un’alluvione di libercoli che si presentano come “guide alle prove Invalsi”, “percorsi per affrontarle”, “preparazione alle prove di valutazione”, mediante “esercizi e modelli per lo sviluppo delle competenze”, e l’“analisi delle prove nazionali” precedenti.

Ho sotto gli occhi alcuni di questi libercoli e c’è da restare raccapricciati. Un insegnante della secondaria superiore dovrebbe smettere di insegnare la letteratura italiana, per insegnare a leggere le istruzioni di un piano di evacuazione della scuola in caso di calamità naturale, a individuare le informazioni nel dépliant di una mostra, o a saper leggere una tabella di previsioni del tempo. Analoghe scempiaggini per le altre materie. Quel che è più grave è che parecchi di questi libri si presentino non soltanto come meri “eserciziari”, ma come manuali sostitutivi della didattica ordinaria, pretendendo di fornire “strategie di insegnamento/apprendimento”, “strumenti operativi forti” capaci di migliorare la professionalità docente e di sviluppare una non meglio specificata “presa di coscienza” da parte dello studente. Siamo così di fronte a una sfacciata proposizione del “teaching to the test” come approccio didattico alternativo a quello tradizionale.
È ben comprensibile allora che la reazione degli insegnanti di fronte a questo impatto aggressivo sia molto differenziata. C’è chi si assoggetta e sospende l’insegnamento ordinario per addestrare gli studenti al superamento dei prossimi test, con effetti devastanti, ma con motivazioni riconducibili al timore di trovarsi di fronte a una valutazione negativa della propria classe. C’è chi si appresta ad “aiutare” gli studenti a superare i test. C’è chi si ribella al degrado della funzione insegnante proponendosi di scioperare. C’è infine chi, correttamente, ignora quanto accade e prosegue nell’attività ordinaria, vada come vada il risultato dei test.
Una considerazione finale si impone. L’andazzo cui si sta assistendo configura una tendenza verso il degrado dell’insegnamento e della figura dell’insegnante, sempre più destinata a trasformarsi nella figura del “facilitatore”, passacarte di valutazioni e di metodologie didattiche confezionate da “esperti” sulla cui mai valutata competenza è meglio stendere un velo pietoso. Altro che rivalutazione meritocratica della funzione dell’insegnante! Qui rischiano di essere premiati coloro che si mostreranno proni a questo andazzo. Come stupirsi allora se, ancora una volta, ci troveremo di fronte alla bieca alternativa tra un ulteriore degrado della scuola italiana o un ennesimo fallimento del tentativo di introdurre serie modalità di valutazione? O a entrambi gli esiti?