Internet e social network danno sempre più da pensare a genitori e insegnanti. I «nativi digitali» invece minacciano una rivoluzione silenziosa. Preoccupano i fautori dell’insegnamento tradizionale, fanno gridare al miracolo gli innovatori e grattare il capo ai pedagogisti, incerti se si tratti soltanto di un banale segno dei tempi o della sospirata possibilità di plasmare indefinitamente il cervello umano. Nel frattempo lasciano perplessi molti professori, disarmati e impotenti di fronte agli sguardi inebetiti dei loro allievi, che chattano per ore ma non sanno fare un discorso – come ha scritto Paola Mastrocola – più lungo di venti secondi.
A volte però i nativi digitali si ammalano, anche. E allora sono i medici a doversi occupare di loro. Uno di questi è Federico Tonioni, autore di Quando Internet diventa una droga, appena uscito per Einaudi, psichiatra e responsabile al Policlinico Gemelli di Roma del primo centro italiano specializzato nella cura della web-dipendenza.
Come è nato il progetto di questo centro antidipendenza da Internet?
Mi occupo di tossicodipendenza da sempre. Nell’ambito del mio lavoro ho notato dei cambiamenti basali nel modo di pensare proprio all’interno dei colloqui che io ho con i miei pazienti storici tossicodipendenti, come se fosse cambiato qualcosa a livello strutturale, nella mente. Soprattutto nei giovani. Ho individuato, insieme ad altri psichiatri che si occupano di altre forme di psicopatologia, una distanza intergenerazionale fra i pazienti più elevata del solito. Mi sono chiesto che cosa potesse averla provocata. Tra i tanti fenomeni sociali, la rivoluzione digitale è sicuramente quello più violento nella velocità con cui si è istaurato. Abbiamo così avviato un esperimento pilota: un ambulatorio per la dipendenza da Internet (in America già ce n’erano). La cosa ha provocato una enorme risonanza mediatica. Era il novembre 2009.
Ci parli di questa «seconda realtà» virtuale che sempre di più coinvolge i ragazzi.
Seconda realtà per noi, unica realtà per i nuovi adolescenti, perché non conoscono un «prima» del digitale. Dovrebbero essere gli adulti a capire, più che chiedere ai giovani di fare un passo indietro, che essi non possono fare perché non sanno dove farlo.
Ma la struttura della nostra mente «cambia» con i nuovi mezzi digitali? Non si tratta semplicemente una nuova realtà che sviluppa in modo inedito le nostre potenzialità?
Ma detto tra noi, che differenza c’è? Tutto ciò che è funzione mentale ha una risonanza sulla struttura cerebrale. Dopo il Nobel di Gerald Edelman (1972, ndr) sappiamo che c’è una plasticità neuronale sia come funzione sia come morfologia. La nostra vita quotidiana ce lo spiega meglio di qualsiasi teoria. Prima il telefonino e poi la diffusione del computer su vasta scala hanno totalmente cambiato il nostro modo di metterci in contatto. Grazie alla tecnologia dovremmo avere moltissimo tempo libero, e invece accade esattamente l’opposto. Ha mai notato che grazie alla capacità di travalicare i limiti spazio temporali, tendiamo a fare tutto contemporaneamente? Questo mondo cambiato lo abbiamo presentato ai nostri figli in assoluta buona fede. Ma le basi della nostra mente si costituiscono in relazione con il mondo esterno dai zero ai sei anni. Essendo cambiato l’oggetto-mondo, anche il prodotto delle interazioni è cambiato con il mutamento degli ambiti spaziotemporali. L’adolescenza enfatizza la risonanza di questi fenomeni.
C’è una domanda che assilla il mondo della scuola. I «nativi digitali» esistono o no?
Certo. Gli adolescenti di oggi hanno una emotività diversa da quella dei loro coetanei della nostra generazione. I cambiamenti sono legati essenzialmente al nostro personale senso del limite. Oggi è facilissimo travalicarlo attraverso il web. Ma quando le informazioni invece di essere orizzontali sono profonde, allora andare fuori di noi stessi può diventare un problema per la costituzione dell’identità. Per cui all’interno di internet e dei social network, soprattutto se evito un incontro «vero», dal vivo, io posso rappresentare me stesso in maniera ideale all’infinito, e questa è una fortissima tentazione per gli adolescenti.
Perché soprattutto per loro?
Perché l’adolescenza è quel periodo drammatico che vede il corpo cambiare di colpo e la mente doversi adeguare a questo corpo. Non ci siamo mai guardati tanto davanti allo specchio come quando eravamo adolescenti… Il «come» ci presentiamo e come ci rappresentiamo è cruciale nell’adolescenza, e il virtuale oggi interviene precisamente in questa dinamica dell’autoidentificazione. Può essere una risorsa se l’esito finale è «reale», cioè quello di una vita dal vivo, ma può divenire un problema se la persona rimane prigioniera della sua rappresentazione.
Che cosa è emerso dai suoi studi e dal lavoro sui pazienti?
Ho classificato cinque forme di dipendenza da Internet: la pornografia online, video e chat erotiche; il gioco d’azzardo online; l’information overload (la ricerca incessante di informazioni inutili, senza scopo, ndr); i social network e i giochi di ruolo. Questi sono i casi più frequenti.
Che età hanno i suoi pazienti?
Sono per lo più adolescenti o ventenni che vengono individuati dai genitori. Poi, dai trent’anni in su, ci sono quelli in genere afflitti dalla pornografia e dal gioco d’azzardo online. Presentano comportamenti compulsivi legati a una dipendenza comportamentale. Ricordano molto i cocainomani, i bulimici. È un comportamento per il quale il protrarsi della durata della ricerca rappresenta la cosa più piacevole rispetto alla conclusione dell’atto in sé, cosa che avviene in tutti i modelli compulsivi.
Cosa notano i genitori, per portare i loro figli da lei?
I pazienti più giovani sono del tutto inconsapevoli di avere una dipendenza, inizialmente. A parte Internet questi ragazzi non hanno conflitti con i genitori. Anziché un conflitto, che in fondo è una forma fisiologica di comunicazione, hanno un vuoto, un’assenza. In questi casi è il genitore che provoca il figlio. La domanda più frequente ai figli è: che fai su Internet? Risposta: quello che fanno tutti i miei amici. Il conflitto avviene quando il genitore è esasperato perché Internet è un mondo a lui sconosciuto, su cui non ha controllo. Il comportamento che vedono è che i ragazzi tornano a casa e con lo zaino ancora sulle spalle accendono Facebook o i giochi di ruolo. Anche mentre studiano, tengono sempre un occhio sul monitor.
E come si manifesta la patologia?
Esistono sintomi di intossicazione e sintomi di astinenza, ma i primo sono molto più frequenti dei secondi. Se si limita forzandolo l’uso del computer ad un ragazzo che ne è dipendente, la reazione è di rabbia improvvisa, fino ad aggredire i genitori. Sono invece più frequenti e sfumati i sintomi di intossicazione, i quali si traducono sostanzialmente in uno stato dissociativo, che si innesca su internet, ma che tende a riattivarsi in automatico anche quando non si è connessi.
Si spieghi.
Se lavoriamo al computer siamo concentrati, facciamo operazioni sotto il controllo dell’io cosciente. Se invece chattiamo, giochiamo o navighiamo sul web per ore entriamo in uno stato molto simile al sogno ad occhi aperti che, a differenza di quel che avviene normalmente nella fisiologica distrazione quotidiana, diviene uno stato di dissociazione basale. In altre parole, la durata provoca la patologia. Nel mentale la quantità determina la qualità, cioè più faccio una cosa più tendo a rifarla automaticamente. È quello che accade nel gioco virtuale o nella navigazione web a-finalistica. Lo stato dissociativo, nelle sue declinazioni patologiche, sfocia in un distacco dalla realtà facilmente osservabile e documentabile.
Torniamo ai social network. Lei prima parlava del rischio di rimanere prigionieri della rappresentazione.
I social network sfruttano questo meccanismo. Mentre il gioco d’azzardo e la pornografia sono degli atti comportamentali molto circoscritti e specifici, l’oggetto della dipendenza nel social network sarebbe la relazione con l’altro, che è nientemeno che il nostro «ossigeno», perché senza la relazione con l’altro non c’è evoluzione nel pensiero né nel modo di comunicare. Ora, il social network ha un primo livello di utilizzo assolutamente normale, in cui è goduto e se ne traggono vantaggi in termini di possibilità di comunicazione. Ma ad un secondo livello il social network può diventare uno schermo, una barriera contro gli stimoli. Un ragazzino timido che corteggia una compagna di banco, ad esempio, magari non ha il coraggio di invitarla per una pizza. Allora la «incontra» su Facebook. Ma su Facebook la relazione interpersonale presenta una diversità fondamentale: non c’è la corporeità. Tutto ciò che passa per il corpo, le emozioni, il linguaggio non verbale, è inficiato su Internet. Accade dunque che se quel ragazzino, dopo aver conosciuto meglio online la ragazzina, riesce a invitarla a mangiare una pizza, il monitor, la distanza fisica è stata funzionale, non patologica: ha fatto del bene. Ma può darsi che questo non avvenga, e che quello virtuale rimanga l’unico livello di relazione.
Esistono anche casi più gravi?
Sì, perché c’è poi un terzo livello, il più grave, in cui ci si mette in relazione solo con il mezzo. Qui troviamo chi gioca a carte con il computer, chi fa il gioco di ruolo con il computer… questi sono contesti di dipendenza stretta. Per quanto riguarda invece tutto il mondo del social network, piuttosto che di dipendenza patologica, io parlerei di psicopatologia web-mediata.
In che modo fa percepire al paziente che c’è un problema?
Cerco dei punti deboli… Spesso questi pazienti sono soli, non riescono ad uscire, razionalizzano tutto, dal punto di vista razionale sono più maturi della loro età. Emotivamente però hanno molte difficoltà, proprio perché le emozioni, nell’ambito degli affetti, sono le uniche che passano per il corpo. Il rossore del volto dice tutto, ci rivela. Il linguaggio del corpo e delle emozioni che passano per il corpo non sono programmabili, e rendono non programmabili le relazioni dal vivo. Il linguaggio non verbale si attiva solo se i corpi sono vicini. Su Internet, se noi parliamo di cose imbarazzanti, e ci vediamo tramite una webcam, non arrossiamo. Non è così per il cinema: se guardo un film e mi commuovo, è perché quello che vedo mi ricorda un’esperienza.
In cosa consiste la terapia?
Nella ricostruzione di una totalità della relazione, rispetto alla quale la patologia costituisce la deformazione abnorme del momento parziale.
Si può dunque dire che la terapia consiste in un ritorno alla «realtà-realtà», oltre la sua riduzione virtuale?
È esattamente questo. La terapia è una riabilitazione delle emozioni, della capacità di riconoscerle dando ad esse un nome. Le emozioni sono le grandi assenti nelle relazioni web-mediate, perché sono esperibili soltanto con il corpo fisicamente presente. Le persone che preferiscono la relazione web-mediata a quella della presenza in toto sono soggetti che hanno un preesistente problema con le emozioni, il quale si cronicizza con internet, ma che spesso è stato introdotto con il frapporsi del monitor nel rapporto figli-genitori. Esempio classico: il genitore che non ha voglia di giocare col figlio e lo piazza davanti ad uno schermo sul quale fa andare un dvd.
E a quel punto il «rispecchiamento» delle emozioni avviene in modo diverso.
Sì. Non è una madre che dice: «perché piangi?» a fare da specchio, ma un monitor. E lo fa in maniera totalmente diversa.
Che ruolo ha in queste patologie il rapporto con la natura?
È completamente assente, esattamente come lo è quello con la sessualità e come lo è, per quanto strano possa sembrare, quello con altre droghe. Mentre chi si «fa» di cocaina può dipendere anche dal gioco d’azzardo o avere una sessualità compulsiva, nel caso di web-dipendenza non ho mai riscontrato fenomeni di co-dipendenza.
Viceversa che funzione può avere la natura nella terapia?
Importantissimo, perché la natura è un mondo di emozioni. Ho insistito con la madre di un paziente perché gli comprasse un cane. Badare a un cane significa usare le mani, toccarlo, sentirne l’odore; «contattarlo», viverlo. Guarire vuol dire passare dalla manualità confinata alla console, dalla quale dipende la sopravvivenza virtuale dell’avatar, a quella che interessa un essere vivente che vive anch’esso di vita propria. Come la nostra.
Qual è la sfida educativa che emerge da questo compito?
Dobbiamo rassegnarci al fatto che se vogliamo essere noi stessi non possiamo essere onnipotenti. Il nostro essere noi stessi è delimitato dai nostri limiti. Dobbiamo rispettarli. Essi sono i nostri confini, non i nostri deficit.
(Jonah Lynch, Federico Ferraù)