La serie di test predisposti dall’Invalsi, da quest’anno anche per la valutazione degli alunni della scuola superiore, è in questi giorni oggetto di critica. È stato affermato che negli Usa, patria dei test, tale metodologia di valutazione sarebbe superata. Ad onor del vero, negli Stati Uniti si contrappongono diverse posizioni: da quelle estremiste che vorrebbero disegni sperimentali in educazione, così come avviene in medicina per testare le malattie, a quelli che ne chiedono l’abolizione in favore di valutazioni solo qualitative.
In ogni caso, oltre oceano continua a prevalere la tendenza all’uso di test come strumento per una valutazione quantitativa della preparazione scolastica che viene integrata a quella qualitativa. Per iscriversi alle università occorre esibire agli atenei il punteggio conseguito nel Gmat, un insieme di test per determinare l’attitudine personale a livello universitario e post-universitario; una delle prove per diventare medico è basata su 4000 test a risposta chiusa… Tornando al contesto scolastico, la metodologia dei test è stata utilizzata almeno dagli anni 60 dalla Iea (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) e poi nell’Ocse-Pisa, la cui attendibilità non solo non è mai stata messa in discussione, ma anzi è considerata al punto che sui risultati di tali sistemi di valutazione si basano studi di ricercatori di molte parti del mondo. In Australia, sulla base di test sulla preparazione scolastica, si sono riorganizzati i curricula scolastici in modo che seguissero l’ordine di difficoltà degli argomenti e delle abilità. L’agenzia australiana Acer, che ha condotto questo studio, è autorevole al punto da avere l’incarico di trattare statisticamente i dati Pisa.



Per arrivare alla situazione di casa nostra, l’Invalsi ha semplicemente cominciato ad introdurre tale metodologia in una versione “moderata”, come condizione necessaria, ma non sufficiente, per valutare la qualità: non per costruire ranking rigidi, come succede in altre parti del mondo, ma innanzitutto per dare alle scuole strumenti – non obbligatori, ma somministrati su base volontaria – di autovalutazione del loro operato. Per sottolineare la necessità di strumenti che aiutino a migliorare la qualità della scuola, basti ricordare che nel Sud e nelle isole, secondo il Pisa, essa è ai gradini più bassi dei Paesi Ocse, mentre solo a livello di superiori gli studenti che abbandonano gli studi sono circa 170.000.
La stampa ha dato molta enfasi al boicottaggio dei professori, ma in realtà la gran parte degli insegnanti (9 su 10) e delle scuole accetta questo strumento di indagine che, va detto, viene utilizzato con molta competenza. I dati grezzi ottenuti vengono infatti trattati dall’Invalsi attraverso una metodologia raffinata – di Rasch – che li “ripulisce”, secondo diverse modalità, da eventuali distorsioni. I vari parametri di controllo dell’attendibilità dei test vengono esplicitati e pubblicati in appositi rapporti tecnici. Per ciò che riguarda l’impostazione culturale sottesa ai test, trattandosi di misurazione nazionale, la scelta è vincolata dalle indicazioni per il curricolo imposte dal Miur. E quindi le critiche all’Invalsi su questo punto, per coerenza, andrebbero rivolte al Miur.
Certo, la valenza educativa di una scuola è infinitamente più ampia di ciò che è testabile e quello di cui c’è più bisogno, anche per il grande malato italiano che è la scuola, è la ripresa di un impegno motivato da ragioni ideali di tutti i soggetti coinvolti nel processo educativo. Ma se è utopistico pensare che l’introduzione di test di valutazione come quelli somministrati dall’Invalsi possa costituire di per sé una soluzione per la scuola, perché opporsi a uno strumento che, se usato con moderazione e cum grano salis, può aiutare a conoscersi, correggersi, migliorare?



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