Anche quest’anno, gli esiti dell’Indagine occupazionale sui laureati italiani condotta da AlmaLaurea (anno di riferimento 2009) non è confortante. Il confronto con i Paesi più avanzati ci vede in costante ritardo: 19 laureati su cento di età 25-34 contro la media dei Paesi Oecd pari a 34. Ciò che è più rilevante, tuttavia, è la condizione occupazionale di tali laureati, decisamente peggiore rispetto agli anni passati: sale sensibilmente la disoccupazione sia fra i laureati triennali (dal 16,5 al 22%), sia fra i laureati magistrali (dal 14 al 21%), sia fra i cosiddetti specialistici a ciclo unico, come i laureati in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza, ecc. (dal 9 al 15%). Una tendenza che si registra indipendentemente dal percorso di studio (anche fra i laureati tradizionalmente caratterizzati da un più favorevole posizionamento sul mercato del lavoro, come gli ingegneri, ad esempio), e dalla sede degli studi e che si estende anche ai laureati a tre ed a cinque anni dal conseguimento del titolo.
Non solo diminuisce il lavoro stabile, ma le retribuzioni, già modeste (di poco superiori a 1.100 euro ad un anno dalla laurea), perdono potere d’acquisto. Quest’ultimo dato conferma, anche per l’Università, ciò che da tempo vale per la scuola italiana: il nostro sistema formativo, nel suo complesso, non è un «ascensore» sociale. Non è un motore per la costruzione della cittadinanza sociale, che, invece, richiederebbe un’ampia modifica dell’impalcatura degli stessi sistemi di formazione. Gli impianti scolastici del mondo occidentale hanno riflettuto per molto tempo i modelli sorti nel XIX secolo quando i problemi da risolvere erano l’analfabetismo strumentale, la creazione di coscienze nazionali, la formazione al lavoro come mansione ripetitiva. Chi sapeva svolgere un lavoro era garantito per tutta la vita. Oggi non è più così: si può essere costretti a cambiare lavoro più volte nel corso della vita, ovvero si può essere costretti a “inseguire” spazialmente il lavoro.
Pertanto oggi l’organizzazione di un sistema formativo va valutata non tanto alla stregua della capacità di distribuire diplomi e certificati giuridicamente riconosciuti ma, invece, dal punto di vista della capacità di garantire un insegnamento equo e giusto a tutti, che abbia un riconoscimento nella società civile ed economica, e nel mercato.
Perciò l’introduzione dell’autonomia delle Università con la l. 168/1989 era stata salutata come la vera possibilità di cambiamento: la sfida era proprio quella di poter attraverso l’autonomia organizzare più efficacemente la propria offerta formativa e, al fondo, innalzare qualità degli studi e del sistema.
Quella sfida non è stata colta, almeno da gran parte delle università italiane. Negli anni recenti l’aumento dell’offerta formativa è stato accompagnato da un incremento considerevole del personale docente. Ma né l’uno né l’altro fattore sono stati controbilanciati in positivo da altri: ad una offerta formativa in costante aumento non hanno corrisposto dati omogenei dell’aumento del numero dei laureati.
Tra le tante ragioni di questo sviluppo irresponsabile dell’autonomia ve n’è una che prevale su tutte: è mancato il “governo” del sistema. Basti pensare allo sviluppo incoerente delle sedi decentrate, mai osteggiato seriamente dal ministero attraverso programmazioni coerenti. È mancata un’azione di governo che si ponesse all’inizio dei processi (dettando le finalità e gli obiettivi) che monitorasse gli stessi e che li valutasse seriamente attraverso incentivi o sanzioni.
La recente legge di riforma solo in parte si colloca in tale prospettiva, e più precisamente nella prima parte di revisione della governance universitaria. Un sistema differenziato e competitivo infatti richiede una condizione imprescindibile: l’esistenza di un reale governo del sistema. Ed è questo, al momento, il grande assente nella legge di riforma. Il nostro sistema universitario, infatti, ha un ministro, ma non ha un ministero. Non ha, cioè, quell’insieme di strumenti, organi, procedure che consentano di poter efficacemente monitorare e valutare gli esiti ed effetti per poi consegnarli alla politica.
Un esempio per tutti è costituito dalla configurazione assunta da uno degli strumenti che maggiormente dovrebbe guidare l’azione politica di governo del sistema: la valutazione. Vi sono almeno due elementi preoccupanti al momento. Il ruolo dell’Anvur e la sua “solitudine”.
Sotto il primo profilo la legge istitutiva (286/2006) contempla solo una possibilità di incidenza e non una stretta correlazione tra esiti della valutazione e conseguenti azioni di politiche di miglioramento del sistema. L’art. 4 prevede, infatti, che “i risultati dell’attività di valutazione dell’Agenzia costituiscono criterio di riferimento per l’allocazione dei finanziamenti statali alle Università e agli enti di ricerca e per l’eventuale allocazione di specifici fondi premiali a strutture che hanno conseguito risultati particolarmente significativi”.
Per quanto attiene la seconda questione (la “solitudine” dell’Anvur), il problema è che la valutazione per essere davvero efficace non può essere appannaggio. La funzione della valutazione richiede una “infrastruttura” nazionale con diversi pilastri (un corpo tecnico di alta professionalità alle dipendenze dell’Anvur, un corpo ispettivo che visiti regolarmente le università con performance al di sotto della media, etc.) e con una serie di relais istituzionali (le relazioni tra Nuclei e Anvur…).
Insomma, se non si vogliono vanificare, ancora una volta, gli aspetti innovativi e significativi introdotti dalla riforma occorre prima di ogni altra cosa adottare il decreto delegato più importante ai fini del governo del sistema e cioè quello che prevede la “valorizzazione della qualità e dell’efficienza delle università e conseguente introduzione di meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche sulla base di criteri definiti ex ante, anche mediante previsione di un sistema di accreditamento periodico delle università” (art. 5, comma 1, lett. a).