Caro direttore,
“La scuola ha un solo problema: i ragazzi che perde”, diceva don Lorenzo Milani. Correva l’anno 1969. Sono passati decenni da allora ma la situazione non sembra gran che cambiata, se dobbiamo registrare che secondo il rapporto Istat nel 2010 la percentuale di chi ha lasciato gli studi senza conseguire un diploma di scuola superiore si è attestata al 18,8%, ben lontano dalla soglia del 10% indicata nella Strategia Europa 2020, e a fronte di una media europea del 14,4%. Il dato è preoccupante. L’Istat indica che ragazzi e ragazze reali non riescono a finire gli studi, e molti di loro vanno incontro a fallimenti su fallimenti e ne rimangono segnati.
Qualche riflessione dovranno pur farla gli insegnanti su questi dati allarmanti: non basta reagire seccati con un ormai usuale “non sono più gli studenti di una volta”, né con l’altrettanto usuale attacco al sistema, additato come responsabile del fatto che un insegnante non entri in rapporto con la libertà di uno studente. I ragazzi che la scuola oggi perde, 19 su 100, e sono veramente tanti, non sono i ragazzi emarginati dall’istituzione, non sono neanche i ragazzi vittime delle contraddizioni che lacerano tante famiglie. I ragazzi che la scuola perde sono i ragazzi che gli insegnanti perdono, e questo deve far riflettere per operare e da subito una svolta.
La questione seria della scuola di cui questa statistica è la cartina di tornasole è lo sguardo degli insegnanti, di ogni insegnante. Non perché esista una terapia sicura e rassicurante, ma perché per recuperare questi ragazzi occorre ripartire non dal sistema, ma dall’attenzione che ogni insegnante rivolge ad ognuno di loro. Esiste il problema della fragilità di questi giovani come esiste la contraddizione del sistema scolastico, ci mancherebbe. Ma non sta lì il punto da cui ripartire, sta invece nello sguardo con cui un insegnante entra ogni mattina in classe, nella decisione a puntare sulla positività che ogni giovane porta con sé, nella “simpatia” che rivolge ad ognuno, riempiendo di entusiasmo e di vivacità il suo tentativo di andare all’“attacco” della realtà.
Dopo questa denuncia dell’Istat c’è davvero da andare all’attacco, portando senza remore la sfida al cuore dell’insegnamento, così che entrare in classe significhi, come diceva don Luigi Giussani, iniziare ad insegnare “con una precisione circa la verità di quel che [l’insegnante] dice, con un amore alla verità di quel che dice e, perciò, con più poesia (poesia nel senso generale del termine); con più amore a chi ha davanti, perciò con più pazienza, con più adattabilità, pronto a valorizzare osservazioni che venissero dagli scolari, pronto a rispondere a domande insistenti, anche troppo analitiche, che gli scolari facessero: insomma, una disponibilità alle esigenze della scolaresca che si chiama carità”.
È quello che ogni studente attende: sarebbe il punto di svolta per la scuola, perché incontrare un insegnante capace di uno sguardo di simpatia totale è la cosa che può salvare oggi tanti giovani dal lento decadere nell’insuccesso scolastico e in quello esistenziale.