Chi ha paura di Virginia Woolf? Uscendo di metafora, chi ha paura dell’Invalsi? Dico dell’Invalsi, prima ancora che dei test proposti dall’istituto?

Già. Perché la paura non nasce primariamente dall’incapacità presunta degli studenti di affrontare strumenti di verifica non consueti, né della difficoltà/ facilità dei quesiti. La paura forse nasce da un’inconscia “orticaria” a farsi valutare da parte delle scuole e/o dei docenti.



Per correttezza va detto che, a fronte di frange di oppositori nate in questo ultimo scorcio di anno scolastico, la maggior parte dei docenti ha somministrato i test Invalsi senza troppo clamore né apprensione. Ciò che andrebbe analizzato è la consapevolezza che la maggioranza “silenziosa” ha delle opportunità e dei limiti della rilevazione, ormai su scala nazionale e su tutti i livelli di scuola.



Il “senso” della valutazione nella scuola italiana è ancora troppo lasciato alla sensibilità professionale soggettiva o di scuola; sebbene la C.M. 49 del 20 maggio 2010 sia un documento che tenta positivamente di promuovere una corretta cultura della valutazione. L’autonomia invocata e citata in tutte le leggi e i decreti emanati negli ultimi anni può manifestarsi ed attuarsi a fronte di punti di riferimento nazionali che possono/ devono essere contestualizzate nella situazione geo-socio-culturale della singola scuola. diversamente si cade nell’anarchia o nella creatività istintiva. Un grande poeta dichiarò che per sovvertire le regole della lingua occorre conoscere a fondo tali regole. Allora forse val la pena di precisare i limiti contestuali in cui si viene a calare l’operazione Invalsi e le opportunità che le rilevazioni promosse dall’Istituto offrono a studenti e docenti/ scuole.



Punto primo. In Italia stenta a trovare accoglienza la definizione di “standard” (intesi come risultati attesi) a cui riferirsi per rilevare, attraverso test o prove strutturate, i livelli di avvicinamento degli studenti a tali standard. In mancanza di questi, le prove Invalsi si rifanno lecitamente alle Indicazioni del 2007 per il primo ciclo di istruzione e al DM 139/07 relativo all’innalzamento dell’obbligo. Il quadro di riferimento esplicitato dall’Invalsi per lingua e matematica (quadro preciso e trasparente) dovrebbe forse dichiarare a quali conoscenze/ competenze si riferisce nel predisporre le prove, partendo dai documenti ufficiali a cui la scuola guarda. Ciò eviterebbe l’obiezione (e il timore) che le prove Invalsi vadano a testare apprendimenti e competenze non sviluppate, o poco elicitate, nella singola classe e nella singola scuola.

Seconda sottolineatura, che rischia di essere tautologica. Le prove Invalsi testano alcuniapprendimenti (in lingua solo una parte degli apprendimenti disciplinari). Tale chiarezza è importante per riconoscere l’area di apprendimenti su cui valutare gli alunni. Diversamente un insegnante, a fronte di risultati negativi o poco lusinghieri raggiunti dagli alunni, può mettere in discussione processi e risultati dell’apprendimento degli alunni nel loro complesso. Ciò sarebbe scorretto sia in relazione ad una valutazione degli alunni, sia per una revisione della propria azione didattica.

In aggiunta alla positività della rilevazione Invalsi, sostenuta da più parti e condivisibile, si può guardare da un altro punto di vista l’impegno degli alunni di fronte alle prove nazionali. Il fatto che gli alunni possano non essere preparati e/o abituati a test strutturati in un certo modo può diventare un’occasione interessante per registrare una macro-competenza e un pensiero divergente, non lineare, negli alunni.

Vale a dire. Porre gli studenti di fronte ad un compito non usuale (almeno nella forma) crea una situazione concreta in cui lo studente può manifestare e dimostrare una competenza non solo disciplinare ma globale. Se il D.M. 9 del 2010 presenta tre livelli di progressione di una competenza, si può osservare la definizione del livello “intermedio” che il DM così descrive. “Lo studente svolge compiti e risolve problemi complessi in situazioni note, compie scelte consapevoli, mostrando di saper utilizzare le conoscenze e le abilità acquisite”. “Sfruttiamo” le prove Invalsi come occasione di elicitazione e manifestazione di competenze anche superordinate alla singola disciplina. Partendo dalla convinzione che, prima ancora che un addestramento, la scuola deve offrire agli alunni occasioni di messa alla prova, di misurarsi anche con il non noto, con il sostegno di coach d’eccezione quali possono essere i docenti. E da un’altrettanto importante convinzione: gli alunni, i ragazzi, hanno un pensiero e strategie molto più numerose ed efficaci di quanto non si immagini. E gli stessi sono disposti a “rischiare” se non sono solo “valutati” ragionieristicamente, ma aiutati a conoscere ed essere consapevoli delle proprie potenzialità e dei propri limiti.

Le prove Invalsi vanno riconosciute nella loro valenza misurativa, nel discreto rigore scientifico della loro costruzione e dell’elaborazione dei dati. Contemporaneamente possono essere sdoganate dal giudizio di essere strumenti sadici, superiori alle capacità degli alunni o, peggio, non calibrati e quindi frustranti.

Si può certamente muovere degli appunti ai singoli item delle prove nonché, ad esempio, chiedersi la ragione per la quale nei test di italiano la grammatica venga testata in una sezione specifica, anziché essere inserita nella parte relativa alla comprensione. Molti potrebbero sollevare questioni. Ma si può evitare che gli eventuali “limiti” dei test diventino la ragione per mascherare paure degli addetti ai lavori e/o per sovrastimare il potere valutativo assoluto dei test stessi.

Senza lo spauracchio dell’esame senza appello gli alunni possono dare più di quanto si chieda loro. I test dell’Invalsi sono delle prove che vanno a sondare apprendimenti, importanti sì, ma “alcuni” apprendimenti. Gli esiti di tali prove possono servire agli alunni per conoscere meglio il punto del percorso in cui essi si collocano.

Sono prove, non sentenze inappellabili. Sereni su questo, insegnanti, alunni e famiglie.