L’articolo di Giorgio Vittadini sui test Invalsi può costituire un punto di partenza per una discussione costruttiva sulla base di due affermazioni in esso contenute: 1) un uso moderato e cum grano salis dei test può essere utile; 2) “la valenza educativa di una scuola è infinitamente più ampia di ciò che è testabile”, mentre è sommamente necessaria “la ripresa di un impegno motivato da ragioni ideali” ed “è utopistico pensare che l’introduzione di test di valutazione come quelli somministrati dall’Invalsi possa costituire di per sé una soluzione per la scuola”.



Partiamo allora di qui e sgomberiamo il terreno di tutti i falsi argomenti che si sono accumulati in questo periodo e che vanno quasi tutti sotto la categoria della strawman fallacy, cioè di quella tecnica con cui si costruisce un avversario di comodo, il più estremista, rozzo e magari anche imbecille, per avere facilmente ragione. Ne darò un breve inventario in seguito, e dispiace che anche Piero Cipollone, a quanto riferisce la stampa, abbia detto che “se poi non vogliamo la valutazione è un altro discorso: ma faremmo come quei malati che taroccano le analisi del sangue prima di entrare dal medico”. C’è indubbiamente chi non vuole alcuna forma di controllo e valutazione, ma è fin troppo facile scegliere come interlocutore soltanto l’estremismo.



Sono completamente d’accordo sul primo punto: nessuna obiezione di principio all’uso di test, come componente limitata di un processo molto più vasto di valutazione. Si tratta quindi di precisare che cosa s’intenda per “uso moderato” e “cum grano salis” dei test. A mio avviso, la risposta è semplice: i test sono utili esclusivamente al fine di valutare l’avvenuta acquisizione di livelli imprescindibili, naturalmente secondo i vari gradi scolastici, sul piano ortografico, grammaticale, sintattico, di calcolo, di conoscenza di basilari ordinamenti storici e geografici, ecc. Riuscire ad avere un quadro chiaro dell’esistenza di competenze minime del genere non è poca cosa in una situazione in cui uno studente universitario può non sapere che “la spirale” non si scrive “l’aspirale” e che la guerra di secessione americana non è avvenuta in Vietnam nel corso del Novecento.



È tuttavia evidente che i test Invalsi non si sono affatto limitati a tale profilo di base ma, almeno per una parte consistente, hanno debordato verso l’obbiettivo assai più ambizioso di valutare le capacità logiche, matematiche (intuitive e deduttive) e di interpretazione dei testi. Qui bisognerebbe entrare nel merito, e ci vorrebbe molto spazio. Mi riprometto di farlo in altra sede più tecnica, limitandomi ad alcune osservazioni sintetiche. L’esame dei test di matematica rivela un duplice paradosso. Da un lato, diversi test presentano gradi di difficoltà incongrui: alcuni test liceali sono quasi di pari livello di test proposti in quinta elementare. Basterebbe questo a ridicolizzare la pretesa di poter formulare dei test rispondenti a criteri oggettivi e anche qui dobbiamo lamentare la ripetizione della litania dell’“oggettività” come se si trattasse di una verità acclarata e non di una discutibilissima petizione di principio.

D’altro lato, un esame dei test liceali rivela che la quantità di conoscenze specificamente matematiche richieste è minima, quasi nulla. In altri termini, gran parte dei test potrebbero essere proposti a un lettore generico della Settimana enigmistica. Non sto a speculare se questo derivi dalla difficoltà oggettiva di costruire test “standardizzati” e che abbiano come sostanza degli elementi conoscitivi, oppure sia un prodotto dell’ideologia delle competenze. Sta di fatto che simili test non valutano affatto l’acquisizione di specifiche capacità matematiche.

Non meno sconcertanti sono i test di interpretazione di brani letterari dove si chiede di indicare con una crocetta il “vero” senso del comportamento di un personaggio. Non soltanto la crocetta giusta è discutibile, ma appare del tutto legittima la miscela di due interpretazioni, o addirittura pensare a una risposta non inclusa tra quelle proposte. Ma l’interpretazione di un testo – a meno che non si tratti di un manuale di istruzioni – non è mai univoca, è cosa estremamente più complessa e ricca. Qui quel che occorre insegnare e apprendere è proprio a pensare la molteplicità di senso e le sfumature del testo.

Quindi, il debordare dell’uso dei test fuori del livello minimo conduce a conseguenze gravi. La matematica – e non soltanto quella del matematico, ma quella di chiunque voglia avere delle conoscenze utili nel mondo in cui viviamo – non si acquisisce come una mera tecnica di problem solving di tipo enigmistico, bensì attraverso una continua interazione tra problemi e una “cassetta di strumenti” di conoscenze che proprio attraverso tale interazione deve essere continuamente arricchita e perfezionata. Ed è proprio questo il corretto percorso didattico da seguire!

Pertanto, la valutazione deve riguardare due aspetti: la ricchezza della cassetta di strumenti e la capacità di usarli. Nessun sistema di test può rispondere a questo obbiettivo. I test finiscono col valutare capacità generali di soluzioni di quiz “di tipo” matematico senza relazione con il sistema delle conoscenze matematiche propriamente detto. Sul piano letterario il risultato è ancora peggiore: far credere a uno studente che l’interpretazione di un testo consenta risposte univoche, da questionario, è devastante e, radendo al suolo l’idea stessa dell’esegesi interpretativa, educa all’assenza di spirito critico e di riflessione, alla superficialità, alla tendenza alle risposte stereotipate e schematiche.

In conclusione, non soltanto un simile uso dei test non serve a valutare niente, ma è diseducativo. Si dirà che esagerato fare tanto allarmismo per una modesta e limitata vicenda di proposizione di test per qualche giornata. Al riguardo, va detto in modo pacato, ma fermo, che è intollerabile la scrollata di spalle con cui molti hanno considerato irrilevante il fatto che le scuole siano state inondate di un numero impressionante di eserciziari di test, per lo più di qualità infima, talora semplicemente indecenti, e che per giorni e giorni in molte classi si sia fatta didattica su di essi, in altri termini che sia esploso in modo surrettizio il “teaching to the test”. Negare che questo sia avvenuto, e in modo esteso, è negare la realtà dei fatti. L’unico modo di contestarlo seriamente sarebbe di ottenere un comunicato congiunto dalle tante case editrici che confessi il buco di bilancio provocato da centinaia di pubblicazioni invendute…

Al contrario, il guaio è che il “teaching to the test” è stato fatto, eccome, e soprattutto dagli insegnanti peggiori. Difatti, è molto più comodo cancellare alcune faticose giornate di lezione sostituendole con la “somministrazione” di test idioti che chiedono di disegnare sole e nuvole al posto giusto su una cartina geografica in corrispondenza con una previsione meteorologica, o di interpretare le istruzioni di evacuazione di un edificio in caso di calamità naturale, o altri ineffabili quiz di matematica per le primarie di cui ho collezionato una casistica desolante. Male quindi hanno fatto quegli insegnanti che hanno sostituito la didattica con queste pratiche, anche se sono convinto che il danno peggiore sia stato il cattivo esempio – che, come tutti gli esempi di pigrizia, rischia di essere contagioso – e che, se la maggioranza dei professori ha fatto fare i test – io stesso l’avrei fatto come dovere d’ufficio – la maggioranza non ha gradito.

Giustamente Vittadini osserva che sulla questione dei test esistono negli Usa posizioni differenti e un ampio dibattito. È assolutamente vero. Ma il problema è che si è voluto, e si vuole far credere il contrario. Siamo letteralmente assordati da un coro che ripete a pappagallo che all’estero tutti sarebbero unanimemente d’accordo sulla pratica dei test, mentre noi saremmo gli ultimi incivili rimasti perché non vogliamo controlli. Non è così, e sarebbe bene approfittare del nostro ritardo per riferirsi al dibattito in corso nella sua pienezza. Ho citato il caso di Diane Ravitch, una protagonista delle politiche dell’istruzione negli Usa che, nel suo recente The Death and Life of the Great American School System. How Testing and Choice are Undermining Education (2010) ha demolito, anche in termini autocritici, l’approccio in termini di “accountability” e di “testing”.

In un recente articolo la medesima Diane Ravitch ha denunciato come Bill Gates stia spendendo miliardi per imporre una ristrutturazione della scuola americana che ne abbassi il livello verso soglie minime, imponendo un uso massiccio dei test per valutare studenti e professori accusati di essere per lo più degli incapaci, con l’effetto di “demoralizzare milioni di professori che non capiscono come possano essere diventati da membri rispettati della società a Nemico Pubblico n. 1”. Ma Gates va avanti come un carro armato, convincendo a suon di dollari le autorità, mentre le opinioni di chi opera nell’istruzione vanno sempre più in direzione opposta. Nello stato di New York un gruppo di personalità autorevoli ha ammonito che l’uso dei test per valutare gli insegnanti è deleterio, e che la misura del “valore aggiunto” di apprendimento è priva di qualsiasi base.

Per Ravitch, le pressioni di Gates, congiunte al fallimento della politica bushiana del “No Child Left Behind” (corrispettivo della politica Berlinguer-De Mauro) stanno diventando una “combinazione tossica” per l’istruzione americana. Si può ovviamente dissentire da simili posizioni, ma non è corretto né intelligente far finta che un simile punto di vista, e che le criticità che solleva, non esistano. Sono molto sconcertato dalla tecnica del silenzio – congiunta a quella dello “strawman” – con cui si ignora qualsiasi argomento di merito e qualsiasi riferimento a posizioni diverse all’estero. Per quanto mi riguarda, ho prodotto un’analisi dei disastri prodotti dal “teaching to the test” negli apprendimenti della matematica in Finlandia, sulla base di analisi finlandesi. Non ho avuto l’onore di una replica, salvo qualche scrollata di spalle che si qualifica da sé. Assicuro tuttavia che queste tecniche produrranno l’effetto contrario a quello voluto, a costo di dover ripetere centinaia di volte le stesse cose.

Sarebbe inoltre opportuno riflettere su un duplice aspetto delle politiche dell’istruzione basate su schemi che si pretendono oggettivi e “scientifici” (quale abuso di questa parola!): è l’asservimento della dimensione educativa a un approccio tecnocratico – e qui mi ricollego alle osservazioni finali di Vittadini – ed è la violazione della democrazia. Sia chiaro: non amo affatto la demagogia democraticistica, e penso che la conoscenza abbia poco a che fare con essa, e tanto meno con l’egualitarismo, ma trovo francamente insopportabile l’idea che il processo educativo venga tolto dalle mani degli insegnanti per metterle in quelle degli “esperti” scolastici – la cui competenza specifica è tutta da dimostrare, e che spesso non producono altro che verbosa tuttologia – sostenuti da un apparato finanziario che s’impone con la brutalità del potere economico. Come dice Ravitch, “quel che è più allarmante è che Bill Gates usi le sue vaste risorse per imporre la sua volontà alla nazione e sovvertire il processo democratico. Perché dovremmo decidere di affidare l’educazione pubblica a un miliardario magari ben intenzionato ma disinformato!”.

Appunto. Quali sono le competenze specifiche che danno a un simile “esperto” il diritto di dettar legge sull’istruzione? Da noi non sembra esistere un problema del genere. Ma attenzione. Difatti, vi sono aspetti inquietanti nell’interesse compulsivo del mondo confindustriale nel pontificare su come devono essere riformate scuola e università. Apprendiamo oggi della proposta di far intervenire i privati a finanziare l’Invalsi. Si dice che questo non intaccherà il carattere pubblico della valutazione e che il mercato deve star fuori dalla scuola, che tutto verrà fatto in modo assolutamente disinteressato. Può darsi, ma è legittimo diffidare di un mondo industriale che non ha mai dato un centesimo per lo sviluppo della ricerca e dell’istruzione mentre non lesina quattrini per imporre come debbano funzionare.

Il mondo dell’impresa renderebbe un ottimo servizio favorendo con disinteressato mecenatismo processi di riforma gestiti dal mondo dell’istruzione e della cultura, non pretendendo di irreggimentare gli insegnanti con formule tecnocratiche. C’è qualcosa di profondamente inaccettabile nella mentalità tecnocratica: la credenza dogmatica nei principi di “gestione” e la sfiducia totale nelle persone. È il paradosso di un’epoca in cui si deride l’idea che esistano “verità” nei Dieci Comandamenti o nei Vangeli, ma si assume come evidente e al di sopra di ogni discussione che i principi della gestione “scientifica” del sociale abbiano “verità” assoluta. Basti pensare al rispetto sacrale con cui certuni leggono e commentano le nuove Tavole della Legge: i sondaggi Ocse-Pisa e le classifiche bibliometriche della ricerca. È il costruttivismo sociale, versione contemporanea dell’idolatria.