Una delle esperienze tipiche di un insegnante che – come il sottoscritto – ha accumulato un po’ di anni di insegnamento è di incontrare, nei luoghi più disparati e nei momenti più impensabili, dei propri ex-alunni. Come la volta che uscendo dalla doccia in spiaggia, grondante acqua, mi sento salutare con un formale “buon giorno professore!”. Incontrare il proprio ex-alunno è come incontrare il proprio “risultato”, altro che misurazione Ocse-Pisa. Recentemente ho incontrato diversi miei ex-liceali in occupazioni che per scherzo minacciavo loro quando dovevo richiamarli all’attenzione e all’impegno: una impiegata come commessa al supermercato, uno come commesso in un negozio di informatica, un’altra come direttrice di reparto in un ipermercato ( con ciò non vorrei che si pensasse che sono un assiduo frequentatore di supermercati…). Quanta matematica e quanto latino hanno dovuto studiare – la nostra sezione aveva docenti particolarmente rigidi in queste materie -, mi è venuto subito da pensare. A che pro? E che discussioni di lunghe ore in scrutini di fine anno, se promuovere o respingere chi si rifiuta di studiare latino, ma “ormai è in quarta liceo”…o non ce la fa proprio in matematica pur essendo in liceo scientifico, “ma ormai siamo alla maturità, dovevano pensarci altri a bocciarlo”.
Mi vengono in mente le parole di Nietzsche sulle scuole superiori, che lui giudicava già allora troppo numerose e per questo motivo incapaci di vera cultura. Quest’anno i dati delle iscrizioni ci dicono che quasi il 50% degli studenti italiani ha scelto un liceo ( negli altri Paesi la media oscilla tra il 20 e il 30%). Nietzsche dunque affermava che “(i licei) si propongono di vincere le necessità della vita: essi possono dunque promettere di formare impiegati, o commercianti, o ufficiali, o grossisti, o agricoltori, o medici, o tecnici… Nessuno però deve credere che tali istituti… possano in qualche modo venire considerati seriamente come istituti di cultura” (in Sull’avvenire delle nostre scuole).
Egli vedeva l’affermarsi di un atteggiamento utilitaristico, necessario nella lotta per la vita, ma che non ha nulla a che fare con la “cultura” veramente umana. Questa scissione tra cultura strumentale e cultura alta, chiamiamola per comodità “umanistica”, eredità del mondo moderno, è il cancro delle nostre istituzioni scolastiche, oltre che della nostra società. La parola “cancro” non sembri esagerata, per Nietzsche “la cultura comune a tutti è per l’appunto la barbarie”. Barbarie o cancro, il problema di fondo era già individuato. Da allora la situazione è peggiorata.
Nei licei oggi si è di fronte ad una duplice tendenza: da un lato c’è chi vorrebbe tornare alla antica tradizione élitistica, rendendo gli studi liceali (insisto sul termine, perché le altre scuole vengono considerate di serie B) più impegnativi e selettivi; dall’altro c’è chi accetta la necessità di adeguarsi alla massa e, come si sa, se si guadagna nel numero si perde in qualità. La tendenza vincente è la seconda, anche perché le promesse di avviare ad un impiego o ad una promozione sociale oggi appaiono poco consistenti, vista la crisi in cui siamo. Gli studenti e le famiglie si comportano di conseguenza: cercano le sezioni “facili” o “difficili ma serie”, secondo le preferenze, in funzione di una prosecuzione degli studi sentita ormai come inevitabile ( magari con rassegnazione). L’aumento dei drop out è un segno della debolezza della scelta operata, e nello stesso tempo della incapacità della scuola di “catturare il soggetto”.
Tuttavia è necessario ben riflettere su questa dicotomia, che così com’è proposta non presenta soluzione, come già viene rilevato nell’articolo di Paolo Ravazzano su questo giornale; egli, dal punto di osservazione di un insegnante di scuola professionale, auspica un superamento dell’alternativa tra otium e negotium. In effetti, una concezione riduttiva del lavoro lo mette fuori gioco: se si considera solo l’aspetto “transitivo” dell’agire umano, si finisce inevitabilmente in un piatto utilitarismo (che, come dimostrato dai fatti, è fallimentare). Ma la praxis umana è sempre anche intransitiva, cioè nell’agire verso l’esterno l’uomo modifica anche se stesso, realizza e diventa se stesso.
Qualunque cosa l’uomo faccia nel suo atto, qualunque cosa ne sia l’effetto o il prodotto, egli nello stesso tempo “produce sempre se stesso e – se così si può dire – forma se stesso, in qualche modo crea se stesso”. Queste affermazioni dell’allora card. Wojtyla ai docenti dell’Università Cattolica di Milano (1977, Il problema del costituirsi della cultura attraverso la praxis umana), aiutano a impostare correttamente il rapporto tra lavoro e cultura: la cultura si costituisce attraverso la praxis umana. Non solo l’attività produttiva ed economica, ma anche la formazione a tale attività può essere ripensata proprio a partire dalla valorizzazione piena del lavoro: la cultura non è altro dal lavoro, se nell’attività lavorativa l’uomo si esprime come uomo.
Analogamente, dal punto di vista dell’insegnante liceale, non può essere abbracciata un’idea di cultura che non abbia nulla a che fare con l’attività propria dell’uomo, cioè la praxis. Gli esaltatori della “purezza culturale”, del valore assoluto del sapere disinteressato, allontanano il loro oggetto in una dimensione astratta. Anche i cultori di un certo sapere “realistico” possono cadere nell’equivoco dell’irrilevanza della dimensione attiva della soggettività conoscente: se il rapporto con la realtà è mediato fondamentalmente dai saperi formalizzati, si rischia di mantenere quella separazione che dicevamo essere il problema fondamentale della scuola. Un approfondimento del modo proprio dell’uomo di agire permette di “legare la praxis con il lavoro in modo non semplicistico”, e di far emergere nella praxis umana “la profonda relazione” che essa ha con il vero, con il bene e con il bello, superando il mero utilitarismo, senza ricadere nello spiritualismo astratto. C’è come una duplice direzione nell’operare umano: in ciò che è “prodotto” si esprime anche la dimensione intransitiva dell’agire, cioè il suo rapporto con il vero, il bene e il bello; mentre “la stessa disinteressata, interna comunione con la verità, il bene e il bello, diventa sorgente di una tale praxis attraverso la quale l’umanità si irradia all’esterno”. In sintesi, come è nella citazione del poeta Norwid, “Il bello è tale per rendere affascinante il lavoro”.
Questa concezione antropologica mi sembra possa tenere aperta, anche all’attività formativa, la possibilità di una sfida a quel recupero di una vera utilità umana che deve essere sperimentata da subito, se si vuole che le motivazioni di chi insegna e di chi apprende siano sostenute. Certo c’è molto da cambiare…