Il carosello di circolari emesse dagli uffici scolastici statali e regionali negli ultimi giorni di scuola intorno agli esami di fine primo ciclo, volte a incentivare l’introduzione della prova scritta della seconda lingua straniera, ormai a pieno titolo facente parte del curriculum della scuola secondaria di I grado, da una parte hanno disorientato studenti e docenti, dall’altra hanno avuto l’effetto di mettere in luce un problema tutt’altro che risolto nel nostro sistema scolastico. Ovvero: che significato ha l’esame di fine primo ciclo? …il primo esame che i nostri studenti si trovano ad affrontare, da quando è stato eliminato quello di quinta elementare. Quali apprendimenti e quali competenze intende testare? Attraverso quali prove? In che misura si tratta di una prova nazionale e quanto invece è legato al percorso formativo proposto da ciascun istituto?



Attualmente esso è composto da quattro prove redatte dalla commissione interna (inerenti le discipline italiano, matematica, lingue straniere) e due prove ministeriali provenienti dall’Invalsi (che valutano gli apprendimenti di italiano e di matematica), a cui si aggiunge un colloquio orale pluri- o interdisciplinare, “finalizzato a valutare non solo le conoscenze e le competenze acquisite, ma anche il livello di padronanza di competenze trasversali (capacità di esposizione e argomentazione, di risoluzione dei problemi, di pensiero riflesso e critico, di valutazione personale ecc.)” ( C.M. n. 49 del 20 maggio 2010).



La maggior parte delle prove sono dunque “locali”, in quanto valutano il raggiungimento di obiettivi stabiliti dagli istituti stessi (naturalmente in rapporto alle indicazioni ministeriali: ma quali? quelle di Fioroni o quelle della Moratti, o addirittura entrambe?) e solo due prove, somministrate in un’unica data stabilita centralmente, hanno la pretesa di dare una valutazione comparabile a livello nazionale. Il voto finale sarà la media matematica della somma delle valutazioni di tali prove, più quello di ammissione dato dal proprio consiglio di classe.

È evidente che il voto con cui si esce dalla scuola secondaria di I grado non ha un valore nazionale, in quanto solo in minima parte dipende dagli esiti della prova redatta dall’Invalsi e affrontata da tutta la popolazione studentesca. D’altronde si vuole davvero “statalizzare” un esame così evidentemente legato al percorso peculiare effettuato dallo studente? E avrebbe senso farlo in una scuola definita dell’obbligo, ovvero che tutti, a prescindere da doti e inclinazioni, sono tenuti a frequentare?



A tali domande occorrerebbe rispondere previa una serie riflessione su alcuni questioni centrali nell’evoluzione del nostro sistema scolastico, non ultima la spinta all’autonomia attestata dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 275 dell’8 marzo 1999, nel quale l’autonomia è detta essere “garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

Una buona intenzione spesso tradita dai documenti ministeriali successivi. Sembra infatti che una reale autonomia faccia ancora molto paura alla scuola italiana. E così si rimane nel limbo, sballottati tra tentativi di garantire a tutti percorsi formativi validi, basati su apprendimenti essenziali, con valutazioni equiparabili a livello nazionale, e azioni volte a rendere adeguati alle esigenze degli utenti reali i percorsi formativi offerti dai singoli istituti. L’esame risente sicuramente di questa confusione: in parte pensato per soddisfare la necessità di comparare gli esiti a livello nazionale, in parte espressione dell’autonomia delle singole istituzioni.

Ciò non toglie che l’esame abbia in sé una valenza insopprimibile: per la prima volta nella sua vita il giovane è ufficialmente chiamato a dare prova a sé stesso e alla società delle conoscenze e delle competenze acquisite nel primo ciclo del suo percorso scolastico. È convocato a risolvere autonomamente problemi, ad attestare le sue riflessioni mostrando la padronanza della sua lingua e la sua iniziale capacità argomentativa, a praticare le lingue straniere, a dialogare con adulti intorno ad argomenti di studio.

Un esame per dimostrare l’uscita dall’infanzia e l’ingresso nella giovinezza, insomma, non ci pare inutile, qualsiasi forma si deciderà di dargli. Nella speranza che si apra un serio dibattito sul suo significato e sulla sua forma e che non si pensi più di risolvere questioni così delicate con circolari emesse all’ultimo minuto, ma si voglia tener conto della realtà effettiva del mondo scolastico.